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Gabicce Mare, primi anni Cinquanta. Equipaggio del motopeschereccio “Non ti arrabbiare”, capitano Novario Galli. Da sinistra: Luigi Ceccolini (Cin Cen), Giuseppe Cecchini (Mambo), Giovanni Morini (Gvan dal Palo), Novario Galli. Sullo sfondo il motopeschereccio “San Giorgio”. (Archivio fotografico Centro Culturale Polivalente di Cattolica)
– Racconto di Novario Galli, classe 1921, storia di vita di un pescatore e di un marinaio della Marina militare.
“Durante una missione ricevemmo l’ordine di cessare le ostilità e di attendere ordini per il rientro. A quel punto ci unimmo con altri sommergibili che erano operanti nella zona. Alcuni equipaggi volevano tornare in Italia ma il nostro comandante era contrario per il possibile rischio di attacchi tedeschi. Infatti i sommergibili che scelsero l’Italia come via di ritorno, furono affondati e fra questi c’era imbarcato un mio amico di Cesenatico. Il giorno dell’armistizio eravamo ancora insieme, il padre di questi venne poi fino a casa mia per chiedere sue notizie. Il nostro comandante fermo nella sua decisione fa rotta per Capo Bona, prima di arrivare a tale destinazione incrociammo quattro motosiluranti che ci chiesero dove eravamo diretti, il caposegnalatore indica la nostra direzione per Capo Bona e ci rispondono di seguirli. Rimanemmo per quindici giorni in rada nelle vicinanze di una zona di spiaggia frequentata da ragazze.
Il nostro istinto di ventenni ci spinse verso la costa e per questo motivo ci fu una mezza rivoluzione con il nostro comandante, il quale fu costretto a farci rapporto. Da lì partimmo immediatamente alla volta dell’isola di Malta, dove era presente tutta la squadra navale italiana e qui restammo in rada per ventotto giorni senza venire mai in terra. Dopodiché lasciammo il sommergibile per essere rimpatriati a bordo del “Garibaldi” (qui c’era Renzo Ricci con la mansione di meccanico). Tra le navi di maggior tonnellaggio c’era anche la corazzata “Giulio Cesare”. Dopo circa un’ora che eravamo a bordo del “Garibaldi” arrivò un contr’ordine che ci ordinava di andare a Napoli con il nostro sommergibile “Platino”, in quanto nella città partenopea avevano fatto saltare una centrale elettrica e le truppe americane necessitavano della luce, per cui il nostro sommergibile doveva fungere da generatore.
Giunti al porto di Napoli con altri sommergibili ci allestirono per il carico dell’energia per le necessità portuali; tre sommergibili caricavano energia, uno fungeva da centrale elettrica per l’arsenale. Restammo per tre mesi allo sbando senza paga e senza comando, in tali condizioni, fortunatamente ci veniva elargito un pasto regolare dalle truppe americane. La città di Napoli era semidistrutta dai bombardamenti, il nostro equipaggio ripristinò un albergo per dormire e per cucinare, a bordo del “Platino” andavano gli ufficiali per la guardia e il controllo del sommergibile.
Successivamente il comando riprese il controllo della situazione e facemmo altre diverse missioni durante il periodo della lotta partigiana di liberazione, queste missioni erano molto pericolose per il rischio di essere fatti prigionieri dai tedeschi. I partigiani erano informati su ogni operazione e spostamenti che avvenivano nelle ore notturne, disponevano di documenti falsi forniti dagli americani, noi fornivamo loro di armi, viveri e medicinali.
Fra le nostre missioni ci fu anche quella di Cattolica, con il sommergibile arrivammo nelle vicinanze del fiume Conca, navigando verso terra fino a toccare il fondo sabbioso con la chiglia. In superficie rimaneva solamente la plancia, mentre la coperta affiorava appena dall’acqua. A quel punto si gonfiavano i gommoni e si andava sulla spiaggia. Questo tipo di intervento avveniva per i suddetti rifornimenti; per i viveri, i partigiani si servivano di un peschereccio. Il materiale veniva prelevato a Brindisi; si andava fuori in mare verso le quattro/cinque del pomeriggio e con il buio caricavamo il materiale. Queste operazioni di rifornimento erano fatte dai soldati americani insieme al nostro equipaggio, per il controllo era presente un capitano di origine torinese che da oltre vent’anni viveva in America.
Successivamente si sparse la voce di una nostra probabile missione in India che mise in stato di sollevazione tutto l’equipaggio, per questo abbandonammo il sommergibile. Il comandante infuriato ci chiese il motivo di tale comportamento e noi rispondemmo che in India non volevamo andarci. Ci fu un momento in cui sembrava che la situazione volgesse al peggio, a quel punto il comandante mi chiamò per andare al timone, ma io mi rifiutai. Lo stesso fecero i motoristi ufficiali. Allora lui stesso mise in moto i motori e con tutta forza avanti strappò gli ormeggi e ci condusse al largo del golfo di Taranto.
Il giorno dopo ci chiamò uno per uno e a me disse: “Tu che vuoi andare a casa in alta Italia, come farai a passare la frontiera, data la presenza del fronte?”. Io gli dissi che non andavo a casa ma a Napoli dove conoscevo una famiglia; allora il comandante Patrelli mi disse: “Ti prometto che in India non ci andremo!”. A quel punto replicai rassicurato: “Se in India non ci andiamo bene, altrimenti scappo via!”.
Tornai a casa nel 1946. In occasione del commiato del mio comandante ricordo bene le sue ultime parole: “Verrà il giorno in cui ci troveremo di nuovo assieme!”. Dopo la guerra ripresi l’attività di pescatore a Fano a bordo di un motopeschereccio, poi ad Ancona e nel Tirreno. Quindi mi imbarcai con le nostre barche di Cattolica quali il “Maria Risorta” a strascico, “Non ti arrabbiare”, il “Mario Terenzi” e per lungo periodo con l'”Eugenio Pozzi”, il cui valente capitano era Virgilio Pozzi.
Un uomo di poche parole ma con ingegno e abilità professionali fuori dal comune. Ventisette anni dopo in occasione di un raduno a Taranto dei reduci della marina militare, mi arrivò l’invito a parteciparvi. Nel frattempo il comandante Vittorio Patrelli era divenuto ammiraglio, coronando così la sua lunga carriera militare iniziata sui sommergibili come guardia marina.
In quella giornata di raduno io ebbi l’occasione di tenere un discorso per ricordare il coraggio e il valore dei miei compagni imbarcati con me sul sommergibile “Platino” e tornammo nuovamente in mare con il nostro ammiraglio Vittorio Patrelli.
(Fine)
a cura di Dorigo Vanzolini
e Sebastiano Mascilongo