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Home Località Cattolica

“Dubidela” e quando le strade erano bianche

Redazione di Redazione
8 Maggio 2006
in Cattolica
Tempo di lettura : 6 minuti necessari
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[img align=left]http://www.lapiazza.rn.it/maggio06/dubidela_ok.jpg[/img]

Cattolica Primi Anni ’50 anziani pescatori sulla darsena di Cattolica. Si riconosce da sinistra: Andrea Donati (“Dubidela”), Gabellini, Giuseppe Rossi (“Picurdén”), Ferretti, Cesare Beretta

– Com’era diversa la Cattolica del passato! Non voglio riferirmi allo stereotipo e convenzionale innamoramento di ciò che fu e che non può più ritornare, ma alla sua vera e propria diversità fisica delle strade, degli spazi, dei cortili e dell’uso diverso che se ne faceva. Mi piacerà ritornare in seguito sull’uso, oggi mi accontenterò di ricordare il manto stradale.
Prima della guerra ed anche nel primo dopoguerra, le strade del paese, per la maggior parte, non erano asfaltate. Lo era la via Nazionale Adriatica, cioè la Strada Statale che, dal ponte Conca sul confine con Misano, attraversava in lungo tutta la cittadella fino alle “Casette”, al ponte sul Tavollo in confine con Gabicce e che oggi, non più rete Statale, si chiama nell’ordine dei quattro tratti: via Emilia-Romagna, via Mazzini, via XX Settembre e via Garibaldi.
Era già asfaltata pure la Strada Provinciale Saludecese che, dalla Ventena saliva verso San Giovanni passando davanti al cimitero. Lo era anche la zona centrale di Cattolica di fronte al municipio scendendo verso la marina e cioè: via Ferri, la via XXIV Maggio, la piazzetta del Mercato, la via della Stazione, la via Mancini, il piazzale Nettuno, la via Bovio, la piazza del Kursaal (ora I Maggio), il lungomare, la via Benito Stagni (ora Eugenio Curiel), la via Maria Josè (ora Matteotti), la via Fiume e la via Carducci nel tratto iniziale che parte da via Fiume fino all’incrocio di via Ferrara.
La via Pascoli e la via Cattaneo erano pavimentate con i sanpietrini e si chiamavano via Principe di Napoli e via Umberto I.
Le strade asfaltate più vicine a casa erano la via Carducci e la via Fiume, venivano scelte da noi ragazzi nel dopoguerra per correre con la carrettella. Già, cosa era la carrettella, che oggi non la si vede più come gioco dei ragazzini? In pratica era un piccolo carrettino di legno che ci costruivamo da soli, a volte aiutati dai più grandicelli, raramente dagli adulti poiché il gioco, dopo i 12-13 anni, veniva a quei tempi giocoforza considerato, in specie nella classe sociale meno abbiente, come un perditempo e non come un benefico momento ludicamente vantaggioso. Una tavola orizzontale era il ripiano su cui ci si poteva sedere, uno solo di noi, data la ridotta dimensione. Aveva quattro ruote, di cui le due posteriori erano su di un asse fissato al disotto del ripiano e l’altro anteriore era invece un asse mobile con perno centrale per poter cambiare direzione e voltare, comandato da una corda che si teneva nelle mani, lunga poco più di un metro, con gli estremi fissati ai due bordi laterali dell’asse,
Prima della guerra le quattro ruote erano ricavate alla meglio e rudimentali e presentavano un forte attrito che richiedeva una notevole fatica a chi spingeva.
Dopo la guerra, invece, con la enorme quantità di residui bellici che vi erano dappertutto, non era per niente difficile reperire quattro cuscinetti a sfera dall’interno delle ruote di ingranaggio dei carri armati cingolati. Questi cuscinetti a sfera, che all’incirca avevano la forma di una corona circolare il cui diametro interno era sufficientemente ampio per introdurre una sella di legno del tipo di un piccolo mattarello, si prestavano brillantemente allo scopo ed il carrettino, con una piccola spinta si muoveva agevolmente; meglio ancora lungo la discesa della via Mancini. L’unica remora era che, la ridottissima altezza da terra, impediva praticamente di andare nelle strade sconesse non asfaltate.
Tutte le altre strade erano infatti inghiaiate, cioè del tipo a macadam, (dal nome dell’ingegnere ideatore McAdam), finite cioè con uno strato di pietrisco misto, tipo “stabilizzato”, spianato e rullato con passate successive i cui residui granuli lapidei venivano poi schiacciati dalle ruote dei carri in transito che, pur essendo di legno erano cerchiate col ferro.
Quando raramente passava un mezzo gommato più veloce: una moto, un furgone, una automobile, un camion (o autocarro, per buona pace del regime), si innalzava una nuvola di polvere che ristagnava o volava via, a seconda di quanto il vento spirasse.
Per una di queste strade polverose, che arrivava ed ancora oggi arriva al centro lungo un comodo pendio dal porto, da cui prende il nome, tornava a casa verso sera spingendo lentamente un carretto, carico di legni, rami e fascine da ardere, l’operaio Andrea Donati detto “Dubidela”. Era addetto, sulla banchina del porto, alle pompe a mano per l’erogazione della nafta alle barche da pesca a motore ed evidentemente quel giorno aveva rimediato un pò di legna da portare a casa da bruciare nel camino. Le fascine e i rami penzolavano dal carretto ed alcune strisciavano a terra, producendo un rumore ed una piccola scia di polvere. Giunto di fronte alla villa di Ermete Re, oggi vi sono gli appartamentini che il Comune di Cattolica concede in uso ai meno abbienti, non si accorse che il cane lupo del proprietario, approfittando del cancello aperto, era uscito sulla strada attirato dallo strisciare dei rami penzoloni dal carretto. Con un balzo addentò uno dei due piedi di “Dubidela”, procurandogli profonde ferite al calcagno.
Al giorno di oggi un episodio del genere attirerebbe la gente, fermerebbe il traffico, farebbe accorrere l’ambulanza con trasporto all’ospedale e tutto quanto ne consegue. Allora non era così. Il malcapitato, liberatosi del cane, contituò zoppicando la sua strada fino a casa.
Il giorno dopo al lavoro al porto dovette recarsi con una bicicletta perché il dolore per la ferita lo faceva zoppicare vistosamente. Gli amici e i marinai che lo conoscevano lo convinsero a recarsi dal proprietario del cane lupo e della villa in via del Porto, per raccontare il fatto e fare valere le proprie ragioni: “Andrea, ti bsogna che tvaga da Armeti e ti facia veda cus cu ta fat al su chen. Bsognarà cut rimborsa i dan”.
Ermete Re, persona facoltosa del paese e che lasciò poi lodevolmente in eredità alcuni beni immobili alla Comunità, spinto anche dal fatto che non lasciava una dinastia di sé e che la figlia Celestina era morta prematuramente, invece, durante la vita, pare fosse un tipo burbero e poco incline ad ascoltare le ragioni degli altri.
Fatto è che trattò in malo modo il povero Andrea cacciandolo senza dargli affatto ascolto.
Passarono i giorni ed il piede di “Dubidela” tardava a guarirsi e al porto, ove nelle ore di stasi del lavoro si coglieva l’occasione per discutere, raccontare, rinnovare la descrizione dei fatti accaduti e delle prepotenze subite, i compagni, gli amici ed i pescatori finirono per convincere Andrea Donati, semplice operaio nullatenente, visto infruttuoso il tentativo bonario, a sporgere querela contro il signor Ermete Re che a Cattolica era un personaggio altolocato e conosciuto ed eravamo al tempo del fascismo.
Passarono i mesi e finalmente fu notificato ad Andrea che il tal giorno si celebrava il processo avanti al Tribunale di Forlì. Il Tribunale di Rimini, competente poi per la nostra zona, fu istituito solo nel dopoguerra, la cui sede fu allora provvisoriamente reperita vicino al mare nei locali del Grand’Hotel.
E’ da immaginarsi lo stato d’animo dell’operaio Andrea che quel giorno con il treno di buon mattino si doveva recare a Forlì in Tribunale.
Le raccomandazioni degli amici: “Ti te da fa veda che tze arvenz zop, te capìi? Bsogna che tut facia intend.”
Venne il fatale giorno, Andrea andò a Forlì in Tribunale e tornò avvilito e sfiduciato con il treno del pomeriggio, sul tardi ed era sera, anzi già notte ed il suo resoconto agli amici al porto fu per il giorno dopo.
“Alora Andrea raconta cum la è andè?”.
“Cum la è andeè!! Te dit gnint cum la è andeè! Vuielt an vi ni immaginèe gnenca per idea cum li se svolt li robie… e gnenca mi amni immagineva che la andeva a fni i se”.
Traendo un respiro e prendendo fiato come se il raccontarlo glielo facesse inibire, iniziò il racconto.
“Tal Tribunel Armeti l’era insen sa du avuchèd che iera trist e cativ come al gat puzle. iera un dlà e un quà e lu tal mez.
I parleva una volta pron. Im na dit quatre. In mli ha dit a tut i culur.
Ad un cert punt la zenta chiera im guardeva cum us guerda ma un asasen. Mo lor du iera talment sigur at quel che i giva che iaveva cumvint ma tut, e anche ma mi”.
E accompagnando le parole con il gesto della mano: “Iaveva arvolt la friteda sotsora e ad un cert punt tut i crideva e ormai ai crideva anche mi, che avisa de ad mors mi mal chen d’Armeti”.
“Co? Mo alora Andrea la è andè mel?”.
“E già. La è andè mel si! Al mi avuched cum difindiva l’era d’uficio, quel di puret, me an l’aveva mai vist, u na mai dit gnint, tl’ultme l’ha dit che us armitiva ma quel cal feva al Tribunel”.
La conclusione sarebbe comica se non fosse tragicomica e per concludere mi corre l’obbligo di una doverosa condiderazione in relazione a come i tempi sono fortunatamente cambiati. Ovviamente non sono cambiati gratuitamente né per magia, ma sono cambiati, grazie al sacrificio di chi ci ha preceduto.
Oggi, un semplice magistrato può inquisire e può condannare un reo anche se questo è un ministro o un presidente del Consiglio dei ministri, allora era ben diverso e valeva molto di più il vecchio sfiduciato e poco lodevole detto che soleva ripetere con amara ironia Attilio Leardini, vecchio amico di mio padre e che così recitava: “Contro la forza la ragion contrasta, vince la forza e la ragion non basta”.

di Silvio Di Giovanni

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