– Caro Guido, posso cercare di indirizzarti i sentimenti che si agitano nel mio animo in questo devastante momento.
Se la gratitudine umana è di conforto nell’al di là, tu ci sei arrivato con il sollievo di un tesoro immenso di rimpianto e di riconoscenze: quelli dei tanti fanciulli ai quali hai salvato la vita, quelli dei tuoi concittadini che hai sempre aiutato ad affrontare dolori e malattie, quelli di coloro che hanno rivissuto il ricordo dei loro cari scomparsi nei tuoi libri sulla vecchia Cattolica.
Ora non incontrerò più la cara immagine del tuo volto, in una Cattolica che non sento più mia come prima (Pino Rossi, Giogi Filippini, Guido Paolucci: cosa resta? dove sono le persone che, come te, non hanno fatto del dio denaro lo scopo della loro vita?). Ma voglio dirti ciò che non ti avevo detto mai, perché ero certo che ti saresti schermito. Dirti che per la tua mansuetudine, per la moderazione innata del tuo carattere, per il tuo senso del Divino, per la tua statura scientifica e anche per il chiarore innocente dei tuoi occhi tu mi ricordavi quel grande spirito libero cristiano che fu Erasmo da Rotterdam.
Ricordo il tuo biglietto di scuse per qualche ruvidità da me subita sotto il tuo ombrellone, e da te disapprovata. Ma ricordo soprattutto il tuo cristianesimo erasmiano, ossia libero e lontanissimo dall’unzione dei tanti bacchettoni il cui orizzonte non va oltre la sagrestia. Non dimentico come sfidasti tranquillamente, pur senza nominarlo, l’arcivescovo di Bologna allorché in una conversazione radiofonica (che mi spinse a scriverti subito il mio plauso e a chiederti scherzosamente come l’avresti messa con quel porporato) caldeggiasti la necessità di impedire la nascita di un essere umano condannato per tutta la vita all’anomalia teratologica, ossia all’infelicità. Mi sentivo particolarmente vicino a te quando raccontavi della tua rinuncia, in un congresso scientifico di un paese dell’America latina, a tirar fuori la documentazione trionfale della tua clinica oncologico-pediatrica, e ricordavi il tuo franco consiglio di lanci aerei di anticoncezionali a beneficio di quelle povere popolazioni. Oppure quando dichiarasti il tuo consenso alla rinuncia all’accanimento terapeutico nei confronti dei fanciulli inguaribili. Questo volevo dirti quando mi facevi pensare a Erasmo: come lui, dedicavi il tuo studio, la tua ricerca scientifica e le tue azioni a una concezione del Divino che non aveva bisogno di passare attraverso le pratiche del culto, anche se non le disdegnava.
Non ultimo motivo di costernazione è stata per me la tua età, meno avanzata della mia. La mia ricerca di consolazione mi ha fatto correre a Seneca, cui accadde la stessa cosa: la morte di un caro amico, Anneo Sereno, più giovane di lui. Per questo motivo concludo il mio saluto di commiato con le parole del grande filosofo romano: “Avrei dovuto dire: “Il mio Sereno è più giovane di me: che importa? Dovrebbe morire dopo di me, ma può anche morire prima”. Non l’ho fatto, e la sventura si è abbattuta all’improvviso su di me senza che me lo aspettassi. Ora penso che tutto è mortale e che, come tale, non obbedisce a una legge precisa: potrebbe accadere oggi quello che può capitare un giorno qualsiasi. Riflettiamo su questo: toccherà presto a noi di arrivare là dove lui è già arrivato e noi ce ne affliggiamo; e forse, se i sapienti dicono la verità e c’è un luogo che ci accoglie tutti, l’amico, per noi scomparso, ci ha solo preceduti”.
Guido Paolucci, il bravo dottore dei bambini
Pediatra di prestigio mondiale, morto il 19 luglio. Scrittore anche di storia cattolichina
Dieci anni fa festeggiò la guarigione del millesimo paziente. “Il bravo medico è chi si riesce a mettere nei panni del malato. Non credo che la vita finisca. C’è una ragione per pensare che continua dopo la morte. Amo Cattolica senza vederne i difetti. Vorrei essere ricordato così: ha vissuto come voleva”
IN RICORDO
– Guido Paolucci è morto prima del tempo, lo scorso 19 luglio, attorno alle 8 di sera, a 74 anni. Lascia la moglie, Rosetta e tre figli. Docente all’ateneo di Bologna, era un medico di valore mondiale e una bella persona. Passione per la storia locale, era collaboratore della Piazza, del quale, nel primo numero, quello speciale ma senza smarrirne il filo, ne era anche stato uno dei “padrini” intellettuali. Quando chiamava, diceva: “Le mando un articolo; veda lei se possa essere pubblicato”. Una lezione: “Professore, siamo onorati di ospitarla”. “Che la terra gli possa essere lieve”. Due suoi amici, Alessandro Roveri e Silvio Di Giovanni, lo ricordano.
di Silvio Di Giovanni
– Ti ricordo nella nostra infanzia quando abitavi nella casa dei Calbi in via Dante. Ti chiamavano e ti chiamavamo “Guiduccio”.
Come sembrava grande quel piazzale cementato tra la casa e la strada che offriva la possibilità di giocare scalzi, calciando una piccola vecchia palla da tennis divenuta liscia e spellata! In quell’esiguo cortile facevamo le due porte e due squadre di pochi calciatori ciascuna.
Tu avevi tre anni più di me ed a quella età tre anni sono tanti e solitamente dividono le compagnie infantili nell’attività ludica.
Tuttavia non sono mancate le occasioni anche di giocare assieme. Le strade in generale e la via Dante in particolare erano i luoghi deputati alle nostre scorribande che dilatavano poi nelle trasversali via Ferrara, via Forlì, via Brescia, via Bologna. Si facevano le spade con i rami di “Tamaris” chiodando un traverso per la protezione della mano, a volte fissando, se si trovava, anche un vecchio piccolo abat-jour, oppure un piccolo portalampada, ricurvo sulla impugnatura.
Le occasioni degli incontri con i tuoi più piccoli compagni erano facilitate dalla tua amicizia per Aldo Calbi, minore di te di quattro anni e la cosa ci coinvolgeva con un piacevole entusiasmo perché i più grandi erano anche portatori, nel branco, di maggiori capacità, di esperienze ed insegnamenti.
Era tuo coetaneo Nino Magnani che abitava sulla stessa via Dante, quasi dirimpetto ai Calbi, in una vecchia casa con il cortile notevolmente rialzato rispetto la strada.
Anche lui fece il liceo come te e come te era bravo a scuola. Vi ricordo entrambi, nel 1948, all’inizio di aprile di quell’anno denso di appassionati e coinvolgenti scontri ideologici. Vi era nell’aria una elettrizzante attesa del risultato di ciò che sarebbe poi stato lo sbocco futuro dello sviluppo democratico di quella nostra Italia postfascista nata dalla Resistenza.
Io e Nino eravamo su posizioni di sinistra, personalmente io ero anche molto settario e facevo una fatica terribile a giustificare le tue posizioni centriste e liberiste, anzi proprio non le volevo nemmeno ascoltare.
Tu e Nino conoscevate già i primi albori del pensiero filosofico crociano e vi scontravate su questo terreno nella interpretazione di quegli insegnamenti. Io conoscevo a malapena solo i primi rudimenti del marxismo e lì ero fermo e fossilizzato.
Era un pomeriggio di quella prima metà di aprile del 1948 e noi tre, in un freddo vento primaverile che spirava dal mare sulla sabbia deserta, appoggiati tu e Nino all’ultima colonna di recinzione della casa del duce, ad angolo tra la via Ferrara e la spiaggia ed io di fronte a voi due, discutevamo tenacemente di politica. E’ un ricordo che, come una fotografia, mi è rimasto impresso nella memoria.
La casa del duce, come tu sapevi, era quella villetta ove ora sorge l’Hotel Luxor. Era così chiamata perchè, verso la fine degli anni ’20, i fascisti cattolichini l’avevano presa in affitto per offrirla d’estate a Mussolini, il quale poi aveva, senza troppi riguardi, optato per Riccione.
Come ci coinvolgevano le ideologie di quegli anni!! E come eravamo pronti a gettare tutto nella discussione densa di entusiasmo la cui età giovanile e la particolarità del momento storico non lasciavano spazio a tentennamenti né a prudenza riflessiva.
Nino purtroppo ci ha lasciato molto prematuramente. Una terribile malattia ha debellato il suo corpo a trentatrè anni in quel mesto settembre del 1965.
Anche tu te lo ricordavi come un compagno bravo e buono.
Io ti ricordo con immenso piacere quando, circa 30 anni fa o più, in una occasione conviviale al “Kariba” del Monte Vici, seduti accanto a tavola tra tanti commensali, nell’intermezzo di un incontro culturale e scientifico, di cui ci avevi onorato della tua partecipazione, venni a conoscenza, a prescindere dai tuoi meriti di medico e di scienziato, anche della tua notevole apertura evolutiva in campo civile, sociale e politico.
E’ stato un piacere che mi sono portato dentro di me da allora, confermato poi in seguito da nostri, anche se rari e sporadici, successivi incontri.
Mi dispiace tanto che non te lo abbia mai esplicitamente esternato.
Ti ricordo Guido quando, circa 25 anni fa, venisti a casa mia accompagnato da Luisen Morosini che aveva saputo poter trovare presso di noi, copia del materiale progettuale delle colonie FIE di 50 anni prima.
Infatti il nostro Enrico si era laureato con una tesi sul quel particolare complesso edilizio dalle strane ed insolite forme con struttura in cemento armato che era, all’epoca, una interessante novità costruttiva.
Ricordo come brillavano di soddisfazione i tuoi occhi quando sapesti che avevamo ciò che cercavi.
La giovane vita del nostro Enrico è stata purtroppo stroncata, lo scorso tre novembre, da un infarto, lasciandoci nel profondo strazio di una perdita a cui non si trova rimedio alcuno.
Il mio pensiero ora non può non essere rivolto ai tuoi famigliari.
La vita purtroppo è densa anche di spiacevoli eventi e tu certo ti saresti ampiamente meritato di godere, in questa terza età, di tutto il piacere della lettura e dello scrivere, al di fuori di quella che è stata la tua opera di medico e di scienziato negli anni della tua intensa attività per il bene degli altri e che ti ha visto come uomo di grande umanità.
Ci ricordiamo tutti, perché lo abbiamo stampato davanti agli occhi, il tuo entusiasmo ed il tuo amore per le pubblicazioni che avevi appena cominciato a produrre, con la descrizione dei nostri luoghi e della nostra storia e dei tuoi compaesani; con le tue brillanti, succinte e puntuali definizioni che hai dato di tutti noi, quarantadue tuoi compagni ed amici, nelle tre pagine del volume dedicato ai “ricordi e immagini” di “C’era una volta Cattolica”, a due terzi del libro, edito dalla nostra Banca di Gradara.
Definizioni così precise che solo i “grandi” sanno esprimere in poche parole e che forse nessuno di noi sarebbe stato capace di centrare e di autodefinirsi così bene ed in modo così appropriato.
Purtroppo anche i “grandi” ci lasciano e tu eri sicuramente uno di coloro che ha dato più lustro alla nostra Cattolica ed ora, dopo quel funesto 19 di luglio, ci resterà la memoria. La memoria di te resterà ai posteri, come la memoria delle persone care e stimate che, con il tempo, si ricorderanno con un senso di profondo struggimento piuttosto che con disperazione e, più con un velo di sentita nostalgia, piuttosto che con un gemito strozzato in gola. Così è e così deve essere la vita e la memoria farà riemergere le figure del nostro passato delicatamente ingentilite ad opera del tempo che sarà trascorso e continuerà a trascorrere.
Ma ora, ora che siamo memori di ciò che sei stato, ora che la ferita è ancora aperta e lacerante in questo presente, ora che tu non sei più, ora, per dirla con il nostro illustre saggio autore riminese, Sergio Zavoli, giornalista amato e apprezzato poeta, ora… ci appari…: “COSI’ RARO e… COSI’ PERDUTO”.
Silvio Di Giovanni
Guido Paolucci
(1932 – 2006)
– Guido Paolucci, oncologo pediatra di fama mondiale, professore all’Università di Bologna, è scomparso il 19 luglio, a 74 anni. Tra lui e la banca c’era una profonda amicizia. Ecco come lo ricordano gli amici della Bcc di Gradara.
Ciao Guido,
te ne sei andato improvvisamente, in punta di piedi, senza disturbare. Te ne sei andato in un soffio con il sorriso sul volto, lasciando tanti rimpianti. Un sorriso che esprime l’amore per la tua città e la tua gente.
Per Guido si può amare Cattolica in tanti modi: “Assaggiarla bambino, costruendo precari castelli di sabbia che la risacca erode; gustarla adulto, ripetendo le vacanze nel passare degli anni, magari con la moglie e poi con i figli e poi con i nipoti; sfiorarla d’inverno, con la nebbia che ovatta le vie e con il lamento della sirena che sale dal porto; vederla con la galaverna che caramella gli alberi smerigliando le orecchie; anticiparla alla festa dei fiori, quando la natura esplode in mille colori; soffrirla sperando che il garbino passi presto; lambirla dai finestrini di un treno che corre e non si ferma e lascia dietro, nel mare che fugge, brandelli di ricordi e di immagini felici; raccontarla nei libri, per dire e dare agli altri, ciò che urge dentro; fotografarla per fissare il tempo, per ritrovare una emozione, per cogliere una luce, un’ombra, un colore, un riflesso, un profilo, e per cento altri motivi”.
Versi bellissimi che evidenziano la tua umanità.
Ciao Guido, forse non tutti lo sanno, ma per noi sei stato un “grande”. Ora non abbiamo più parole, solo lacrime negli occhi e tanta tristezza nel cuore.
Noi abbiamo perso un amico.
La comunità locale ha perso un personaggio di grande valore che ha scritto pagine importanti per la storia della nostra città; che ha lasciato un segno indelebile in campo scientifico a livello nazionale e internazionale.
Ciao Guido, conserveremo sempre la tua amicizia come un dono prezioso.