Le bellissime parole sono di Eduardo De Filippo e forse possono essere cucite addosso a Gian Franco Micucci (1946-23 febbraio 2006), per una quindicina d’anni protagonista assoluto della vita pubblica cattolichina (sindaco dal ’90 al 2004) e non solo. E’ morto lo scorso 22 febbraio; ha messo la parola fine alla sua vita con un secco colpo di pistola. Se n’è andato in un silenzioso clamore. Lascia tre figli. Ed il primo pensiero va a loro.
Generoso, istrionico, furbo, fanfarone, guascone, mani bucate, rivoltato Cattolica come un calzino, tirate su piazze e coinvolto i privati negli affari, inattendibile, ridato dignità al cattolichino (che cosa vuol dire?). Ogni trovata da buontempone veniva giudicata una genialata o una bischerata e con reciproco gioco veniva amplificata fino alla luna dai mezzi di comunicazione. Che detestava. E’ stato un cattivo quanto tollerato modello di amministratore; un’azienda privata avrebbe chiuso i battenti in un volger di mesi. Cattolica si ritrova con una montagna di debiti.
Il meglio di sé lo dava nelle relazioni umane. Al cronista, che pur non aveva una grande amicizia, conservava le cartoline che gli spedivano. Anche per anni; in genere un paio. Aveva la capacità di non dimenticare. L’ultimo incontro tra Micucci ed il cronista risale ad alcuni mesi prima delle elezioni del giugno 2004. Micucci lo chiama solo per parlare; vuole fare quattro chiacchiere e bere un sorso, insieme. Si ritrovano nel salottino del palazzo comunale, la musica di sottofondo che va. Si parla di tutto, in massima libertà: dai massimi sistemi alle camicie, dalla coltivazione dei pomodori (condividevano la passione per l’orto e i profumi della terra) alla sua amministrazione della cosa pubblica. Alle critiche: mai un sussulto, mai un errore, mai un passo indietro. Mai una recriminazione.
In un incontro simile, alcuni anni prima, gli aveva raccontato di Renato Curcio, di Mauro Rostagno, gli amici della facoltà di Sociologia di Trento che si erano fatto un nome nelle Brigate Rosse e nel sociale. Belle informazioni di prima mano: “Curcio era timidissimo; Rostagno un genio; aveva davanti una bella carriera universitaria”.
Cesare Pavese, prima del suo gesto inconsulto, scrisse di non fare troppi pettegolezzi. Che la terra gli sia leggera.
Giovanni Cioria