– Il confronto tra Silvio Di Giovanni ed Astorre Mancini è stata buona cosa. Non riesco però a non pensare che qualsiasi forma di spiritualismo sia oggi la più virulenta prova della persistenza di una cultura inguaribilmente guasta.
Essendo io cattolichino avrei potuto essere stato iniziato al cristianesimo nella prima infanzia tirannicamente inficiata da una prima comunione comunque fatta, ma non sono mai stato sufficientemente malaticcio per aderire al complotto clerico-istituzionale.
Non discutendo le lecite argomentazioni di Di Giovanni credo che ciò che debba esser superata sia la concezione intimista che il Mancini propone della fede, quando Mancini dice “convincersi che tutto possa essere recuperato dentro un orizzonte di senso?”.
Una sorta di ottimismo ripugnante trapela -a mio modo di vedere- dal modo in cui la suddetta discussione sulla fede viene trasposta in un’ottica di appiglio soggettivo capace di lenire il frastuono che porterebbe la rassegnazione alla consapevolezza di esistere non solo su un pianeta in cui 24.431 persone muoiono ogni giorno di stenti ma anche in un corpo finito e reso vacuo dalla ragione e dalla coscienza.
Ritengo sia la naturale paura dell’ultima tragica ora fatale a dover essere superata. Nelle notti insonni, rasserena proprio il pensiero di una soggettiva insignificanza, accompagna nel sonno la sensazione di caduta nel vuoto, allora sì che posso provare l’essere solo con me stesso, nessun oppio? grazie!… provare tutto? avanti!
Anche la stessa cultura (intesa come usi e costumi diffusi) non è altro che una “rete” di protezione al senso d’impotenza nei confronti del caso e del nulla. Non esiste differenza tra un rituale religioso e l’abitudine convenzionale dell’igiene (ad esempio). La ripetizione quotidiana di svariati gesti non è altro che il tentativo di parare l’inaspettato. Nei viaggi ad esempio, si programma il ritorno? ottundendo la coscienza sul fatto che non è certo che si torni.
Certo in questa modernità costruita sull’illusione della vita permanente e che del nascondere la morte ha fatto la sua abitudine meno percepibile non è cosa semplice, ma è proprio questa la sfida.
Credo che la vita non vada intesa con la stessa formula a cui il sistema capitalistico ci ha abituato, essa non ci appartiene, ci è stata donata quasi come per un maledetto dispetto a cui le nostre regole non sanno far fronte. Anche le nostre virtù non sono altro che “vizi di forma” innescati dalle primissime fratture con lo stato naturale della condizione umana.
Che ci si debba o possa attaccare come piattole non solo alla vita ma anche a concezioni religiose di qualsiasi origine proprio per la paura del nulla eterno della morte credo sia a dir poco primitivo.
In fondo la storia parla di monaci e guerrieri, di sangue a fertilizzare la terra, non di occlusioni arteriose o neoplasie. Gran parte di noi sopravvive grazie a vaccini ed inneschi di natura puramente meccanica.
Credo che la prova del fatto che non esista alcun senso da ricercare sia intrinsecamente data dal fatto che la nostra esistenza null’altro si basi che sul funzionamento idraulico, meccanico e chimico del nostro organismo.
Credo sia proprio la consapevolezza di quel nulla a renderci capaci di migliorare tutto. E per migliorare il tutto intendo pensare molto meno esclusivamente a noi stessi. Il fatto che tutte le nostre quotidianità si debbano per forza un giorno risolvere nel nulla dovrebbe darci quell’enorme motivazione nel tentare di costruire pensando esclusivamente al futuro, quello di quando non ci saremo più. Di più, se qualsiasi cosa finirà in nulla non credo sia bestemmia pensare che qualsiasi cosa sia priva di senso anche ora. Ora, adesso e nell’ora della nostra morte viviamo nel nulla.
Pensare che aforismi e belle frasi abbiano un qualche senso è quasi sciocco, chi le ha scritte o pronunciate non erano altro che uomini dal giudizio inficiato in modo deterministico dalle soggettive esperienze di vita e dai propri timori più profondi e forse mai affrontati.
Lo scatto avverrà solo quando si accetterà il nulla totale di un’esistenza che è accidente dalla sua stessa origine. Solo quando saremo in grado di fare falò di tutte quelle “stampelle” rappresentate dalle credenze religiose ed ideologiche.
Come si è visto non intendo nemmeno dibattere l’esistenza di una qualche forma di entità onnipotente o gestrice inetta della natura. (Se fosse capace ci avrebbe eliminato tutti da tempo e non sarebbe solo all’inizio dell’opera). Intendo invece dichiarare sana l’unica visione che così mi sembra, quella dell’accettazione benevola della mancanza generale di senso di qualsiasi cosa che non includa il semplice progresso della razza umana, il semplice tentativo di relazionarsi alla natura sapendo che l’unico obiettivo è quello di evitare la sofferenza fisica e psichica.
Credo infine che solamente con l’accettazione del nulla come stato permanente delle singole esistenze si possa concepire un qualche senso nell’esistenza comune dell’intero consorzio umano.
Solamente con l’accettazione del nulla il nostro becero “individualismo a tempo determinato” potrà trasformarsi in un’ottica di progresso generale che inizia dal nostro stretto intorno e finisce ai confini dell’infinito.
Accettare il nulla e la morte significa rendersi conto di appartenere in minuscola parte ad un grande organismo che della nostra singola e temporanea esistenza non sa che farsene, ma che invece se significata su una base comune di tutti -e dico tutti- quelli che dell’organismo fanno parte e ne verranno a far parte avrebbe forse qualcosa di cui compiacersi.
di Giuseppe Ricci