– Il periodo della guerra che ci ha direttamente coinvolti, tra l’autunno del ’43 e l’autunno del ’44, è senza dubbio quello che maggiormente ha segnato la mia fanciullezza. La paura delle bombe e delle granate, la paura dei tedeschi e dei fascisti, che si vedeva scolpita nel volto degli adulti, mi lasciava disarmato. Vari episodi erano successi che contribuivano a far cadere ogni difesa psicologica per un ragazzino di quell’età di fronte a così grandi sconvolgimenti dei rapporti umani.
Poi, con l’arrivo degli “Alleati”, dopo il passaggio del fronte del 2 settembre del ’44, la vita era ritornata a risplendere. Era ritornata la libertà, erano cessate certe paure ed io lo vedevo nello sguardo, ritornato sereno, dei miei genitori.
Il racconto che mi accingo a narrare appartiene però all’anno scolastico ’45-’46, perché ha rappresentato per me un’angosciosa parentesi di vita che ricordo con ansia struggente. Ho fatto precedere al racconto il periodo immediatamente precedente perchè, come diceva Alexandre Dumas, “Ogni avvenimento ha la sua profonda radice nel passato”.
Io frequentavo quell’anno la quarta elementare dalle suore, in cima alla salita della via Pascoli ed il portone d’ingresso era subito dopo quello della chiesa. L’esercito militare degli alleati aveva quasi finito di smobilitare l’occupazione delle case e delle strade. La vita normale cercava a fatica di riprendersi, pur con tutti i limiti e gli ostacoli che si frapponevano per la mancanza di tutto. La nostra maestra era suor Angelina, persona di mezza età e dal portamento severo ed autoritario.
L’aula era nel corpo sul retro del fabbricato, rispetto alla via Pascoli, verso la Piazza del Mercato e la classe era, come d’uso nel dopoguerra, traboccante di alunni ed alunne.
I miei genitori, anche se avevano una visione laica della vita, mi mandavano a scuola dalle suore allettati dal fatto che c’era lezione anche il pomeriggio e così si imparava di più, dicevano; inoltre, per alcune ore in più della giornata, potevano contare che fossi più al sicuro in un’aula scolastica che per le strade.
Tale scelta doveva comportare per loro anche un sacrificio economico, dal momento che vivevano in ristrettezze e che dalle suore si pagava, invece alle scuole comunali no.
Quell’anno il mio compagno di banco, Paolo e che noi chiamavamo Paolino, nipote della madre Superiora che dirigeva l’Istituto scolastico, era attraversato da una triste tragedia famigliare. La mamma stava morendo di un male incurabile. In classe si cercava di consolarlo.
Lui apparteneva ad una famiglia facoltosa e conosciuta del paese che era anche molto religiosa e varie ore della giornata scolastica venivano dedicate ad una serie ripetuta di preghiere, in particolare per questa mamma che, morendo, lasciava una nutrita prole.
L’aria che si respirava a scuola era pervasa da un senso di triste presagio giacché la maestra, evidentemente delusa dal corso della storia in quell’immediato dopoguerra, ci propinava sovente, con allarmante convinzione, l’imminente fine del mondo.
Il fatto poi che ci sollecitasse a pregare giornalmente, sia in classe e sia scendendo nella chiesa, conferiva all’ambiente una atmosfera carica di insicurezza che rendeva vulnerabile quella età tra la fanciullezza e l’inizio dell’adolescenza. Non passava giorno che non vi fosse un richiamo alla apocalittica visione dell’immediato domani. Ricordo che io vivevo nel terrore di perdere i miei genitori e la mia sorellina.
Suor Angelina apparteneva evidentemente a quella schiera di persone che, con la caduta del fascismo, aveva perso il proprio punto di riferimento ed in quell’anno, che era invece foriero di speranze per i più, nell’attesa del referendum istituzionale sulla scelta della Repubblica, anzichè della monarchia, lei, in evidente attesa della parusia e dell’evento escatologico, soffriva però anche della circostanza, che poi si è verificata, di non avere più, nel frattempo, il re a garanzia di chissà quali privilegi di coloro a cui lei forse credeva di appartenere.
Ovviamente, avrebbe fatto molta fatica a vedere alcuni aspetti come privilegi, le era molto più congeniale vederli come diritti divini intangibili.
Il suo terrore era alimentato anche dalla presenza dei partiti di sinistra, che fra l’altro partecipavano anche ai primi governi di coalizione nazionale, quale frutto della “Resistenza” nel primo dopoguerra e rappresentavano lo spauracchio di quanti, durante il fascismo, avevano ben vissuto e convissuto con esso e lo avevano esaltato ed anche sostenuto.
Ricordo che prima di quel settembre del ’44, cioè negli anni in cui frequentavo la prima e poi la seconda classe elementare sempre dalle suore, nelle stanze, oltre al crocefisso, erano sovente appese anche le foto del duce e del re, e quest’ultimo, nella pomposa esaltazione di grandezza e di potenza, veniva nomato quotidianamente nelle ricorrenze di rito verbali o scritte, (grazie al supporto della grottesca dittatura), quale: “Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e volontà della Nazione, Re d’Italia, Re d’Albania, Imperatore d’Etiopia” ed era alto meno di un metro e mezzo, poco più di un nanerottolo quindi e per l’appunto veniva anche ironicamente definito “il re sciaboletta”, per la piccola spadina che gli avevano dovuto confezionare. Ma ciò che più fece difetto alla sua persona di sovrano e che, fra l’altro, portò l’Italia alla rovina, non fu certo la statura fisica.
La nostra maestra era tutta d’un pezzo ed in classe valevano le regole di severità. Teneva sovente in mano, con analoga devozione come se avesse il crocefisso, un pesante tagliacarte interamente di metallo che assomigliava ad un vero e proprio pugnale.
Nel manico era scolpito l’emblema del fascio con la mannaia, che era una presenza usuale prima della guerra ma che perdurava anche nell’immediato dopoguerra.
Lei lo teneva per la punta della lama e lo sbatteva di tanto in tanto sulla cattedra per incutere timore, rispetto e silenzio, sovente lo sbatteva sulle dita dell’incauto alunno se la risposta non era esatta o se le dita e le unghie non erano sufficientemente pulite.
Lei infatti di tanto in tanto passava la cosiddetta “rivisita” alle mani.
Aveva uno strano concetto del modo di educare i meno capaci. Quando qualcuno persisteva nello sbagliare il compito, prendeva un foglio di carta bianca e vi scriveva “Asino” in lettere cubitali, poi lo appendeva con due fermagli alla schiena, sul grembiule nero, del malcapitato e scegliendo uno dei più bravi della classe gli affidava l’incarico di portarlo nelle altre aule a farlo sfilare.
Si doveva bussare alla porta delle altre classi, poi si entrava e si diceva, come era d’uso, “Sia lodato Gesù Cristo” e l’altra maestra rispondeva “sempre sia lodato”, poi si entrava in mezzo ai banchi e si faceva il giro esponendo il malcapitato, che sovente si vergognava e piangeva, alla pubblica gogna.
Io ero uno tra i più bravini e questo compito di accompagnatore mi è capitato un paio di volte e quando l’ho raccontato a casa a mia madre, non senza un certo orgoglio tipico della innocente cattiveria di quell’età, ricordo il viso riprovevole di lei che, diventata seria di colpo, mi guardò negli occhi e mi disse che la mia non era stata una buona azione. Sono cose che non si dimenticano, neanche diventando vecchi.
La lavagna nera era di quelle rotanti, agganciata su due supporti laterali che le permetteva di essere girata su un asse orizzontale.
Quando interrogava alla lavagna non disdegnava di dare un colpetto in testa mediante una pressione con la mano sulla parte alta del bordo della stessa lavagna al malcapitato alunno che dava una risposta sbagliata.
Un compagno poco incline alle virtù scolastiche, ricordo che ne faceva sovente le spese. Si chiamava, e si chiama Flavio, e nella vita ha fatto il falegname ed è stato anche cultore del ciclismo, abita ora in via Donizetti. Da adulti ci si vede raramente ma quando capita di incontrarci lui non manca mai di rammentarmi il poco raccomandabile metodo educativo di questa maestra.
Nel suo caso toccò il culmine un giorno durante una interrogazione.
Suor Angelina, evidentemente spazientita dalla poca propensione allo studio, lo picchiò in testa con il tagliacarte che con il colpo le si ruppe in mano, si staccò, cioè, la lama dal manico, procurando anche una piccola abrasione nel cuoio capelluto di Flavio, con conseguente colata di un rivolo di sangue lungo il viso.
Noi ragazzini, a quella visione, rimanemmo stupiti e sconcertati ed ancora oggi, quando capita di rinnovare il ricordo con qualche vecchio compagno, si ha sempre lo stesso senso di disappunto.
La maestra, evidentemente preoccupata per la rottura della lama, non mancò di rimarcare il fatto con una smorfia di dispiacere, dato che quel tagliacarte rappresentava per lei un regalo ed un ricordo, di una persona che doveva esserle stata tanto cara.
Forse questa nostra insegnante, fossilizzata nella sua incrollabile ed indiscutibile fede nei valori tradizionali, non era affatto innamorata del metodo educativo Montessori. Forse non ne aveva mai sentito parlare.
E’ più facile che non sapesse neanche chi era questa grande marchigiana pedagogista ed educatrice di fama, di nome Maria che, nel 1936 all’età di 66 anni, aveva dovuto lasciare l’Italia per esercitare la sua missione pedagogica con i suoi ideali democratici e pacifisti che non potevano convivere con quell’Italia del regime vergognosamente benedetta dalle alte gerarchie ecclesiastiche del tempo.
Alla fine di quell’anno scolastico, ricordo che fui capace di imporre la mia volontà a quella dei miei genitori ed ottenni di farmi iscrivere, per la classe quinta elementare, alla scuola comunale nel Palazzo del Municipio.
Oggi mi compiaccio perché mi risulta che nella nostra città anche la scuola privata abbia un equivalente buon metodo educativo ed un personale insegnante al pari con i tempi e con la scuola pubblica.
di Silvio Di Giovanni