MORALE E VITA
– Nei giorni scorsi mi è stato chiesto di patrocinare come avvocato il caso di un’anziana lungodegente che, nel pieno possesso delle facoltà mentali, ha chiesto di interrompere l’alimentazione liquida a mezzo sondino e di poter essere alimentata normalmente; l’istituto ove è ricoverata si è opposto perché ciò significherebbe accorciarne drasticamente l’aspettativa di vita. Dovrà decidere il Tribunale di Rimini: ancora una volta sarà un giudice a decidere una controversia su temi “eticamente sensibili”. La vicenda evoca i casi drammatici giunti di recente all’attenzione dell’opinione pubblica.
Ho accettato l’incarico ma con il dubbio di non stare dalla parte giusta, e magari di assecondare un progetto non di vita, ma in qualche modo sacrilego ed offensivo dell’ordine naturale delle cose.
Spesso siamo chiamati a scelte concrete che mettono a dura prova i nostri convincimenti etici più profondi: la vicenda è stata tuttavia l’occasione per prendere consapevolezza delle convinzioni in cui credo, e fare un po’ di chiarezza interiore.
Penso che l’essere cattolico e la pretesa di appartenere alla Chiesa renda questi conflitti di coscienza ancora più laceranti: è paradossale dover prendere atto che come credenti siamo più impreparati degli altri ad affrontare la complessità delle questioni che la nostra epoca ci pone innanzi.
A mio avviso tale impreparazione è anche frutto di un retaggio dottrinale che ci portiamo dietro del tutto inadeguato rispetto ai modelli culturali del nostro tempo, e di un Magistero della Chiesa che non ha ancora fatto i conti con la modernità e soprattutto con una quotidianità governata dalla mentalità scientifica, ormai divenuta un abito mentale.
Come credenti avremmo bisogno di coniugare i principi della nostra fede, le cose in cui crediamo, con la cultura della nostra epoca : la Chiesa non è invece riuscita a proporre una sintesi credibile tra fede e cultura, né ha avviato la ricerca di una mediazione culturale che aiuti il discernimento, e dunque l’ascolto della coscienza, che trovi linguaggi nuovi, comprensibili, per esprimere la ricchezza dell’esperienza di fede e coniugarla con il nostro tempo, per convincere e convincersi che si può essere cristiani “dentro” la cultura contemporanea, senza con ciò avversare come un “demone” la scienza e la tecnica.
Siamo in una situazione di smarrimento per l’affermarsi di forme culturali del vivere sociale avversate dalla Chiesa “senza se e senza ma”, bollate da ormai vent’anni come individualismo sfrenato, consumismo effimero, ricerca del successo e del piacere, relativismo etico, ecc…, clichè divenuti a lungo andare luoghi comuni vuoti, mentre la stragrande maggioranza dei cattolici vive con ben diversa maturità e serenità il nostro tempo, pur consapevole delle tante degenerazioni sociali ed individuali che ci affliggono.
Analogamente, sul versante dei “temi eticamente sensibili” la Chiesa appare costantemente in difesa, capace solo di ribadire, sul versante pubblico ed in ogni dove, i propri “principi non negoziabili”, vita, famiglia e libertà religiosa, più attenta a non perdere rendite di posizioni che non a fornire ai propri fedeli nuovi strumenti culturali per “rendere ragione della speranza” (1 Pt, 3,15).
Il problema non è “adeguarsi” alle logiche del mondo, sia ben chiaro; la Chiesa porta avanti un messaggio universale che afferma la propria alterità rispetto a queste logiche, lo sappiamo: ciò non toglie che si siamo ancora in attesa dal Magistero di “nuove analisi e nuove sintesi” (Gaudium et Spes, 5) che affrontino e risolvano la “congerie di problemi” (GS) che già il Concilio vedeva all’orizzonte, e soprattutto che smentiscano quel pensiero laico che a ragione vede il cattolicesimo “in perenne e lacerante conflitto con la propria epoca” (Aldo Schiavone).
Non vorrei soffermarmi sulle scelte contingenti della Chiesa, sulle posizioni discutibili dettate dalle cronaca politica o dalla situazione italiana (ad esempio, crediamo davvero di poter difendere l’istituto della famiglia relegando al codice civile, e dunque alla sfera privata dei singoli, la disciplina delle coppie di fatto ?!, che in Inghilterra – come presto da noi superano le coppie sposate?, ? e perché il laicato cattolico ha taciuto innanzi a tale soluzione di bassissimo profilo, proposta dalla gerarchia senza alcun confronto preventivo con il mondo laico?).
Mi riferisco a questioni ben più profonde, che avrebbero bisogno anche di nuove elaborazioni teologiche. Penso ad esempio al concetto di natura, di “ordine naturale”, tanto spesso invocato da noi cattolici per giustificare i limiti alla scienza o censurare comportamenti ritenuti eticamente riprovevoli, e dentro i cui confini riconduciamo anche – discutibilmente, credo – l’istituto della famiglia fondata sul matrimonio.
Tuttavia, il concetto di “ordine naturale”, così come sviluppato dalla tradizione e dalla teologia e filosofia cattolica, ha da sempre offerto modelli statici di interpretazione della realtà, validi ed efficaci in un’epoca premoderna ma del tutto inadeguati per “leggere” la complessità del nostro tempo.
I processi evolutivi, biologici, culturali, scientifici, sono infatti così repentini da sconvolgere ogni acquisizione consolidata, ogni convincimento: viviamo in un’epoca caratterizzata dalla mentalità scientifica, e mai come oggi la scienza e la tecnica condizionano il sorgere di nuovi modelli culturali, ponendo in discussione, di volta in volta, l’etica che ne consegue.
E’ stato scritto che l’uomo per la prima volta avverte l’assenza di confini materiali alle possibilità del fare: una potenzialità certamente da governare entro un quadro ben preciso di regole e valori etici, individuali e sociali, ma da non demonizzare come frutto umano perverso.
Innanzi al caso di Eluana, il cui padre ha chiesto l’interruzione dell’alimentazione artificiale, la Chiesa ha richiamato ancora una volta la “legge naturale”, che impedisce all’uomo di “interferire” con il processo della vita. Da cattolico ho compreso questa posizione. Mi ha dato molto da riflettere, tuttavia, la replica del sig. Giuseppe Anglaro, padre di Eluana, il quale ha osservato che “il corso della natura è stato interrotto dai protocolli rianimativi che hanno portato Eluana allo stato vegetativo permanente; qui non si tratta di una consumazione di una vita, ma di fare in modo che la natura riprenda il suo corso che è stato interrotto”.
E’ curioso che entrambi gli interlocutori a loro modo si siano richiamati all’ordine naturale: ciò che per la Chiesa è violenza contro il corso naturale dell’esistenza, per il padre di Eluana è ritorno ad una naturalità che solo trent’anni addietro, senza le macchine che prolungano indefinitamente la vita vegetativa, avrebbe posto fine all’ esistenza terrena della sua povera figlia : in tale esempio, paradossalmente, appare tuttavia la Chiesa ad adeguare il limite della natura alle nuove possibilità temporali di vita consentite dalla scienza medica e dalla tecnica ?
Tutto ciò per dire che il concetto di natura amplia o restringe i propri confine anche in base a ciò che la scienza e la tecnica consolidano come fatto culturale comune, come ha dimostrato il tema della donazione degli organi, avversata dalla Chiesa fino a vent’anni fa’ ed oggi pacificamente accettata anche sotto il profilo morale.
Ma in un contesto culturale come quello descritto, qual è la soglia della “naturalità” che come cattolici siamo chiamati a tutelare come inviolabile?! Fin dove possiamo spingerci nell’accettare i risultati della scienza e le applicazioni della tecnica, e dunque lo sviluppo umano?
Soprattutto, a quale umanità ci apriamo, se come cattolici temiamo così tanto la cultura del nostro tempo, bollando ogni sua espressione con l’accusa di relativismo ? Ma di quale speranza ci facciamo portatori se non pensiamo altro che a proteggere l’uomo da sé stesso? ? ma il messaggio cristiano non afferma che Dio vuole essere scelto nell’esercizio consapevole e responsabile della libertà umana?
di Astorre Mancini
Avvocato in Rimini