IN RICORDO
di Alessandro Roveri
– Ci sono persone che non scrivono libri, non compaiono in Tv, non si iscrivono a partiti politici, ma sono simboli di un’epoca e di una comunità, per cui sarebbe delittuoso non sottrarle all’oblio.
E’ questo il caso, per me, di Attilio Talacchi (Tilìn), improvvisamente deceduto la sera dello scorso 21 ottobre. Non se ne adontino i comuni amici anch’essi destinatari del mio affetto, ma Tilìn era rimasto, e non soltanto a Cattolica, il mio ultimo amico, frequentato e ascoltato assiduamente al telefono. Egli era davvero il simbolo della Cattolica novecentesca e della sua antica roccaforte di via Pascoli, dove, dinanzi alla rocca malatestiana, egli si asserragliava in casa con i suoi libri e i suoi giornali. Così come egli era il simbolo dell’antifascismo, figlio orgoglioso di quel padre comunista Giustén, fornaio, salvato per miracolo in ospedale, in un lontano 1° maggio, dopo le feroci bastonature fasciste.
Eravamo coetanei, ma collocati in classi diverse delle Maestre Pie. Il mio sodalizio con lui nacque perciò solo dopo la guerra vittoriosa contro i nazifascisti. Da allora ci siamo frequentati in ognuno dei giorni da me (e poi da mia moglie) trascorsi a Cattolica. Sulla base del comune antifascismo, poco contava che ci dividesse la sua esaltazione dell’Urss, nata dalla gratitudine per il contributo determinante di Stalingrado alla disfatta nazista. Ci univa infatti l’amore per la libertà e la democrazia. Se io alzavo la voce per strada, mi redarguiva giustamente per timore che si pensasse che a fèn lita.
Ma quello dei due che si arrabbiava più facilmente era lui. La sua ira mi ha sempre fatto pensare alla distinzione scolastica tra l’ira del giusto e l’iracondia, ossia la collera del nevrastenico, fine a se stessa. L’ira di Tilìn era del primo tipo e non era fine a se stessa, perché derivava dal suo profondo amore per la giustizia ed aveva lo scopo di far sentire all’interlocutore quanta indignazione suscitava la sua incoerenza o la meschinità dei suoi argomenti.
Quell’uomo onesto e schietto era un idealista, e voleva che la politica fosse nobilitata dal suo alto livello morale. Della giustizia aveva il culto, essa era la bussola costante delle sue riflessioni e dei suoi discorsi. Ciò fa sì che, ad onta del suo ateismo, si parli anche di lui là dove l’evangelista Matteo (5, 6) ricorda le parole di Gesù sul Monte: «Beati quelli che sono affamati ed assetati di giustizia, perché essi saranno saziati». Per questo, lassù Attilio si ricongiungerà con suo padre e con il comune amico Giogi Filippini, l’altro affamato e assetato di giustizia. E sarà, con loro, saziato.