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Home Rubriche L'inchiesta

Alberghi, si vende a poco quello che vale poco

Redazione di Redazione
9 Luglio 2010
in L'inchiesta
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
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L’INTERVISTA

“Staremmo molto meglio se nell’indagine fossimo comparsi come i più cari. Il sistema regge sulla famiglia che lavora”

– Santinato una camera d’albergo da noi costa la metà che nel Sud Italia.
Lei come la vede? Bene o male?
“Beh, questo me lo dovrebbe dire lei…
Io la vedo malissimo. È come un titolo di borsa, se il prezzo crolla significa che vale poco. La merce che costa di meno in assoluto può attirare molti clienti? E quindi che qui non vale la pena investire perché l’investimento non torna, il territorio non ha più nulla da dare. La Riviera romagnola è quella più popolare in conseguenza di questo, il prezzo più basso. Punto. Pensiamo ai negozi cinesi oppure alle auto che vengono dall’Est. Mi viene in mente la Tata. Sono i prodotti più economici di tutti ma non hanno mercato. Staremmo molto meglio se nell’indagine fossimo comparsi come i più cari”.
Gli albergatori dicono di essere concorrenziali perché assicurano il miglior rapporto qualità/prezzo.
“Il rapporto qualità prezzo si basa su due fattori: la qualità dell’offerta e la concorrenzialità della spesa. Noi ci siamo solo in uno dei due settori. La costa smeralda, per esempio, non ha alternative al prezzo alto. Da noi la fascia alta non esiste, non c’è. Offriamo un prezzo basso perché non abbiamo un prodotto di qualità. Immaginiamo questo, anche per assurdo: un decreto Obama costringe tutti i miliardari a venire in vacanza da noi. Dove andrebbero? Non avrebbero dove andare perché non ci sono strutture all’altezza. Le eccezioni sono poche, di chi è capace di trovare nuove strade e investirci. Mi vengono in mente il Blu suite hotel di Bellaria, l’hotel Duomo o il Regina Elena 57. Il prodotto nuovo, bello con appeal si vende bene”.
E come fa a reggere ancora questo tipo di business?
“È un sistema che ancora si sostiene grazie alla famiglia che lavora. È lo sfruttamento della manodopera famigliare. Infatti noi eravamo competitivi anche senza la crisi. Dalle altre parti hanno aumentato i prezzi mentre da noi sono sfacciatamente più bassi. Il problema, ribadisco, è la qualità. Non ci sono risorse da investire per riqualificare”.
Tanti hotel, soprattutto a Rimini, sono dati in affitto. Negli ultimi anni è un fenomeno divenuto importante. Anche questo pesa?
“Sì, perché e impossibile trovare qualità in un sistema di alberghi in affitto, quando il margine operativo lordo corrisponde alla locazione di una stagione”.
Insomma è un sistema destinato a frantumarsi?
“Ora noto un’aria stanca. Gli imprenditori non vedono un futuro chiaro. Poi ci sono gli imprenditori coraggiosi che hanno investito o investono per riqualificare e dare un’offerta di qualità elevata.
La Riviera è nata con le cambiali, con i debiti. Oggi le aziende indebitate sono poche ma quelle che ci sono vanno bene perché hanno investito. In questo modo il declino del settore farà uscire dal mercato chi non ha il coraggio o la possibilità di investire. Negli ultimi 20 anni si sono perse quasi 500 strutture solo a Rimini. Erano circa 1700, ora siamo attorno alle 1200. Certo molte sono state accorpate o trasformate in residence”.
Quanto pesa la crisi economica e del turismo in genere?
“Ora il turismo internazionale si sta rialzando. Da noi invece è il turismo di prossimità a rappresentare il problema perché con la pioggia di giugno un italiano decide di non partire o di tornare a casa prima. Un inglese che prenota una vacanza di una settimana non torna indietro anche se piove. È difficile aumentare le presenze senza una destagionalizzazione. Processo avviato ma comunque il 70% delle presenze lo facciamo d’estate”.
Quindi?
“Quindi è come la pubblicità, quella per chi ha problemi di erezione: Basta scuse! La gente non ha smesso di andare in vacanza. Ma noi non abbiamo ulteriori ingredienti che servano a venderla, la vacanza. È come cercare di vendere un Mivar in b/n 14 pollici invece di uno Sharp ultrapiatto. Siamo rimasti a un’offerta turistica di 40 anni fa. Il futuro passa attraverso il cambiamento e l’adattamento, diceva Darwin”.

IL FATTO

L’Espresso: la Romagna e le tristezze

– Gli albergatori non ne parlano volentieri perché è materia delicata. Una recente inchiesta, pubblicata sul sito internet dell’Espresso, ha però riportato a galla il torbido, riproposto il problema in maniera critica. Il lavoro irregolare fa parte del sistema, è sempre stato così, e permette anche di abbassare i prezzi e mantenersi competitivi. Il passato è tinto di quella sfumatura in toni di grigio o color seppia che ha il pregio di consegnare un po’ tutto al mito. Il mito della laboriosità, del “far legna”, della fatica che non pesa perché siamo romagnoli, anche se gran parte del sistema turistico, oggi più che mai, non è più “indigeno”.
Alcuni decenni di storia trasformano però la società. Mutano i costumi, le esigenze, fino alle nazionalità e addirittura i colori. Così il seppia e il bianco e nero lasciano spazio ai colori più spietati. “Questo modello turistico è particolare, naturalmente per la storia stessa della Riviera – è l’analisi di Anna Battaglia, della Filcams-Cgil di Rimini – che ha come caratteristica l’inventiva, il cogliere il momento favorevole, in una gestione che in passato era prevalentemente famigliare”. Quindi anche il ritmo e l’orario di lavoro erano esasperati: comunque lo stipendio rimaneva in famiglia. “Ora il sistema è cambiato e ci si chiede: come si fanno ad avere questi prezzi mantenendo qualità per esempio nella cucina? La risposta è che si taglia nei costi della manodopera. Altrimenti non si spiegherebbe come a Rimini, dove statisticamente abbiamo una media reddito tra le più basse, ci sia tutto questo benessere. È un contrasto che salta all’occhio e stride con la rappresentazione che ne danno alcune categorie. A fine stagione la Filcams (rappresenta i lavoratori del terziario ndr) è quello che registra il maggior numero di vertenze”. Cambiano le tinte, si diceva. Il nero è una di quelle. Ora si preferisce parlare di lavoro grigio: “Ora il lavoro nero è più raro – riprende Anna Battaglia – infatti è più frequente trovare situazioni in cui, per esempio, si fa un contratto part-time e invece il dipendente lavora 13 ore, senza giorno libero e con tanto fuori busta. Con la conseguenza che, per esempio, non si riesce a raggiungere il monte ore per la disoccupazione o l’assegno sarà molto ridotto”.
I giovani da sempre hanno fornito tanta manodopera a basso costo con turni massacranti e stipendi molto al di sotto del contratto nazionale di riferimento. Da qualche anno a questa parte gli stranieri, soprattutto i neocomunitari romeni, hanno preso il posto di tanti italiani nelle sale, nelle cucine e ai piani degli alberghi. Costano meno perché pretendono salari più bassi e fanno meno storie: spesso ignorano i propri diritti.

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