IL RACCONTO
di Silvio Di Giovanni
– Mio padre faceva il muratore ma non era cresciuto sui cantieri edili, da ragazzino, come invece è stato per me. Lui, a 18 anni, nel 1920, era venuto via dalla campagna di San Giovanni in Marignano, con la sua famiglia contadina, per venire ad abitare a Cattolica, in una casetta che mio nonno, con le stime di uscita dal podere e con i risparmi che aveva, si era comprato in via Brescia.
Dopo aver cercato invano una occupazione, o una occasione per imparare un mestiere, dato che non poteva più fare il contadino, decise di andare a lavorare a Roma dove lo sviluppo dell’Urbe, con l’avvento del nuovo regime, era un pullulare di cantieri.
Stette là un po’ di anni, lavorando sodo e dormendo sopra una branda in affitto, collocata in un sottoscala, con una tenda per parete che lo divideva dal resto dell’ambiente, che una vecchia signora affittava per un prezzo modesto.
Quando tornò non era più un semplice manovale generico, ma sapeva fare il muratore e nel cortile retrostante alla casa di mio nonno, con i risparmi che aveva portato a casa, si costruì una minuscola propria casina nella previsione di sposarsi ed andarci ad abitare, così come poi fu, dato che, al ritorno a Cattolica, aveva trovato anche la fidanzata in una numerosa famiglia marinara nullatenente, che era quella dell’altro mio nonno.
Sotto il fascismo, nella miseria generale che vi era per le famiglie operaie, con i rari lavori edili che si manifestavano, la vita per un muratore senza una fissa occupazione e non iscritto all’unico partito ammesso dal regime, era molto grama anche se possedeva la casa.
Personalmente, io mi ricordo dalla prima metà degli anni ’40. In casa si viveva di ristrettezze e con un magro bilancio famigliare. Dopo la fine della guerra la vita apparve pian piano rinascere nella riconquistata libertà e nella grande speranza che alleggiava nell’aria e nell’animo della gente ed anche sul viso dei miei genitori.
Io al mattino andavo a scuola ed il pomeriggio a lavorare con mio padre che, affetto da flebite cronica ad entrambe le gambe, anche un piccolo aiuto nell’alzare dei mattoni o delle mattonelle o nel portargli la cofana con la malta, era per lui un sollievo.
All’inizio degli anni ’50 ero già ero un provetto muratore ed anzi, di lì a poco ero diventato anche un valido capomastro, seppur molto giovane e sapevo già condurre un cantiere edile e quando, nell’agosto del 1952, mio padre ebbe una lunga crisi di più mesi della sua cronica malattia con permanenza a letto, abbandonai la scuola.
Impiantammo, mio padre ed io, una piccola ditta edile con alcuni dipendenti, che ebbe vita fino a qualche tempo dopo di quel luglio 1962, data in cui io, studente autodidatta già da molti anni, mi diplomai geometra, dando annualmente i cinque esami da privatista al Valturio di Rimini, che aveva allora sede in via Gambalunga, il preside era il professor Remigio Pian.
Mio padre non aveva avuto da bambino una certa istruzione e quella scolastica si era fermata alla terza elementare, come quella di mia madre. Quelli erano i tempi. La loro maturazione di persone per bene, che non scendevano a patti con la propria coscienza, veniva dall’esperienza della vita e dal buon senso.
Tanti sono gli esempi dei loro comportamenti, che mi sono serviti di insegnamento nella vita.
Oggi, pur essendo diventato vecchio, coltivo ancora, seppur in modo ridotto, la professione del tecnico edile e nelle occasioni dell’esame tecnologico dei materiali di lavoro che servono, ad esempio, alla formazione del cemento armato (metodo costruttivo per eccellenza ed il più adoperato), mi capita a volte di pensare a quegli anni, quando l’avvento tecnologico per la produzione degli inerti (la ghiaia e la sabbia nelle loro varie ed assortite dimensioni che oggi escono giornalmente dai frantoi), in quel tempo ancora non c’era.
E’ vero che le occasioni per usare il calcestruzzo per il “getto” di una trave, un pilastro, un balcone a sbalzo, un solaio, ecc… erano allora inferiore, ma l’esigenza c’era pure allora.
Chi forniva gli inerti per fare i getti? Occorre premettere che tutti questi materiali che sono sempre serviti assieme al cemento (o comunque nel passato ad un altro legante idraulico), per confezionare il calcestruzzo, venivano prelevati, qui dalle nostre parti, dal letto del fiume Conca o sotto le rive del monte di Gabicce, giacché non vi sono mai state, in zona, delle cave naturali di materiale lapideo.
Ma chi prelevava dal letto del fiume la ghiaia per confezionare il calcestruzzo? Lo facevano i carrettieri e la portavano con il biroccio, che in teoria doveva, per dimensione, essere di un metro cubo di contenuto di ghiaia. Il biroccio era tirato da un cavallo.
Io che ho sempre avuto la passione per i numeri, per i calcoli, per la matematica e la geometria, da tempo mi ero accorto che il contenuto del biroccio era sensibilmente inferiore al metro cubo: a volte di 0,85 a volte 0,80 ed un giorno contestai la scarsa misura al carettiere Giuseppe Parma detto “Failin”, che in realtà era il più bravo tra tutti i carrettieri a ritrarre la ghiaia dal fiume, scegliendola e lavandola.
Io non contestavo che lui non fosse bravo ad estrarre e fornirci la ghiaia ben lavata e pulita, contestavo l’insufficiente misura ed un giorno mi stavo opponendo allo scarico dal biroccio nel nostro cantiere, con il che stavo procurando un enorme dispiacere e disappunto al vecchio carrettiere.
Mio padre, che poco lontano stava a sentire il diverbio, intervenne e mi convinse a desistere dalla mia posizione e di lasciare scaricare il contenuto, con il proposito che uno dei giorni seguenti mi avrebbe dimostrato la ragione del suo intervento.
E così fu. Alcuni giorni dopo, sul piccolo motorino che avevamo (un Guzzino di 65 c.c. che poteva portare due passeggeri), mi portò a vedere nel letto del fiume Conca, come “Failin” e gli altri carrettieri, facevano per estrarre la ghiaia pulita e lavata dal corso d’acqua e come la portavano fuori dal fiume.
Con l’aiuto della forca-tridente per smuovere le masse lapidee più compattate dal terriccio e con il badile in mano, sceglievano la ghiaia nei pressi del “raggetto”, che era il luogo dove, circa al centro del fiume, scorreva l’acqua.
Con il badile si impalava una quantità di ghiaia che era evidentemente sempre poco o molto sporca, poi sotto o dentro il “raggetto” dell’acqua, con il badile in mano agitando la massa si faceva scorrere l’acqua tra i lapidei e, una volta pulita la si riversava su di un luogo ripiano più vicino possibile o direttamente sul biroccio. Si ripeteva l’operazione per ore fino a che si era fatto una quantità all’incirca pari a mezzo biroccio, giacché non si poteva riempire per intero altrimenti il cavallo non sarebbe stato in grado di tirarlo fuori dal fiume a carretto pieno.
Usciti dal letto del fiume si vuotava il contenuto in un luogo pianeggiante nei pressi della strada e poi si ritornava nel corso d’acqua per estrarne l’altra metà, sempre con le stesse operazioni di estrazione.
Quando la seconda quantità poteva dirsi a colpo d’occhio, pari circa all’altra metà del carico, si usciva dal letto del fiume e si andava sulla strada a ricaricare la precedente metà e poi si partiva dal Conca per portare il carico sul cantiere che distava, quasi sempre, alcuni chilometri.
Siamo stati a vedere per un po’ di tempo, poi mio padre mi chiamò da parte e mi disse, ovviamente nel nostro dialetto, che noi abitualmente parlavamo: “Ades te vist! A pens che t’ava capì perchè a to dit da no fela tenta longa, se la misura l’an gnera tuta. Pensa com i fa a “fela” e cavela dal fium la brecia laveda e pulida”.
“Adesso hai visto! Penso che tu abbia capito perché ti ho detto di non farla tanto lunga, se la misura non c’era tutta. Pensa come fanno a ‘farla’ e toglierla dal fiume, la breccia lavata e pulita.”
E’ un ricordo che non si dimentica. Fu una lezione di cui ho cercato possibilmente di fare tesoro nella vita, nelle immancabili occasioni di possibile incomprensione con gli altri. Da allora ho pensato poi che non si può pretendere di far prevalere sempre la propria ragione. A volte, col senno di poi, può far più piacere alla propria coscienza una umana compromissione, una umana concessione alle diverse ragioni degli altri, in determinati e particolari casi della vita.
Mio padre, che sicuramente non aveva mai letto le novelle della letteratura italiana, né quel toccante episodio di quell’alba, nell’appena pronunciata luminosità mattutina, che rischiara a malapena il cielo notturno e precede l’aurora, quando il padre, medico condotto, attacca il suo cavallo al calesse per partire di buon’ora per il suo quotidiano lavoro ed in quel frangente, costringendolo ad una apposita levataccia e non la sera prima, consegna il denaro al figlio per rimpinguargli un mal speso dei giorni precedenti e gli dice: “un’altra volta prima di spenderlo il denaro, pensa a tuo padre come fa a guadagnarlo”.
La lezione per me era: “Un’altra volta prima di rimproverarlo quel carrettiere per la scarsa misura, pensa come fa ad estrarla dal fiume la ghiaia, sceglierla, lavarla, caricarla sul biroccio e portarcela a noi in cantiere”.
I caratier
A la matena prest te fe de lom
i caratier i andeva giò te fiom
s’la sabia ch’ià port sò, pori cristien
l’è stè fat al chesie ad mez Murcien.
Se po’ e car se pes u s’incaieva
i ciapeva al rag dal rod e i feva leva
sa cal menie rovde e pinie ad cal
i treva piò fort lor che né i caval.
I sas ch’iera stè port da la fiumena
ui ciapeva un per un, carghendie a mena
purted tlà streda po’ l’avniva e bel
un per un ui spacheva s’un martel.
Al stredie do che ades andem a spas
agl’ie stè fatie totie sa chi sas
da la fadiga ch’ià fat se su lavor
te fiom ancora ades e cor e su sudor!
Mario Elio Foschi (Morciano)