La macchine utensili stanno andando benino anche grazie agli sgravi fiscali
L’INCHIESTA
di Francesco Toti
– E’ arrivata la ripresa ma con gli ordinativi a vista. Sul medio e lungo periodo non c’è nulla. L’occupazione invece boccheggia ancora. Il polso che qualcosa si sta muovendo viene fornito da un’azienda straordinaria della metalmeccanica del nostro territorio. Fa il terzista ed impiega circa 120 dipendenti (più una cinquantina di artigiani che le ruotano attorno). Ha clienti che sono leader mondiali: Caterpillar (macchine per il movimento terra), Leitner (gatti delle nevi ed impianti di risalita per la montagna), Soilmec (macchine per imballaggi), Pieralisi (macchine oleodinamiche), Danieli (altoforni). Nel momento della crisi nera, dopo aver tagliato gli artigiani, era al 30 per cento della capacità produttiva; in questi mesi è risalita all’80, ma gli ordinativi sono sul breve periodo. Sul medio e sul lungo sono spariti. I rappresentanti con i quali è in contatto, a loro volta in relazioni con imprese di tutt’Italia, affermano la stessa cosa: ordinativi a corto respiro. Questo esempio imprenditoriale, che alcuni anni fa scelse di non lavorare per marchi del territorio provinciale, ha avuto anche la forza di non licenziare nessuno.
Anche in casa Top Automazioni, Poggio Berni, le cose hanno ripreso a marciare. Seconda al mondo per caricatori per torni, esportatrice del 50 per cento della produzione (era all’80% fino a due anni fa), produce dei robot che servono alla macchina principale le barre da lavorare: dalle viti per gli orologi ai pezzi per apparecchiature elettro-medicali. Il creatore e titolare, Bruno Bargellini, è anche il presidente dell’Api (Associazione della piccola e media industria della provincia di Rimini). Racconta: “Dal mio osservatorio che non è proprio banale si ha la sensazione che la crisi stia per essere superata: le cose vanno benino. Questo per almeno tre motivi. Il primo, e forse è il più importante, è che il tessuto imprenditoriale e tecnologico riminese è competitivo, altrimenti non ce l’avrebbe mai fatta. Negli ultimi anni, la maggior parte di chi esporta e vuole bene al proprio lavoro, che ha la responsabilità dei propri dipendenti, ha innovato in tecnologia, in prodotti, cercando anche nuovi mercati”.
“Il secondo punto – continua Bargellini – è che fino allo scorso 30 giugno, con inizio nel giugno del 2009, le macchine utensili hanno beneficiato di uno sgravio fiscale che dava diritto di ammortizzare il 50 per cento dell’investimento effettuato (prima si ammortizzava in 5-6 anni). La scorsa primavera abbiamo addirittura avuto un’esplosione negli ordinativi. Questo per il mercato Italia; di pari passo dall’inizio di quest’anno si è mosso, seppur timidamente, anche il mercato europeo”.
“Il terzo fattore – chiude Bargellini – è il deprezzamento dell’euro, il cui valore nei confronti del dollaro è passato dall’1,60 ad 1,30. Così abbiamo ripreso ad esportare anche fuori del vecchio continente. Oggi, i nostri grandi concorrenti nel comparto macchine utensili sono i cinesi, gli indiani, i brasiliani. Gli europei hanno le nostre stesse difficoltà”.
In questi momenti bui c’è anche chi ha continuato ad investire e ad allargarsi. Un esempio per tutti è la “MT” ( acronimo di Marchetti Terenzio). L’azienda di San Giovanni in Marignano è leader mondiale nella produzione di testine intelligenti per torni. Ha appena inaugurato il nuovo stabilimento.
Tessile-abbigliamento
Si è mossa la metalmeccanica, ma si sta incamminando anche il tessile-abbigliamento. Ad esempio i primi tre mesi 2010 dell’Aeffe si sono chiusi con il segno più rispetto al robusto arretramento di fatturato del 2009, circa il 25 per cento meno. L’azienda, che ha in cascina i marchi Moschino, Pollini, Alberta Ferretti, ha anche ripreso i pagamenti legati agli obiettivi raggiunti.
Futuro
Come affrontare il futuro? Afferma un imprenditore: “Questo è il momento in cui la politica deve cambiare il passo. Deve essere al fianco delle aziende in concreto e non a parole. Non è possibile, ad esempio pagare la terra 200 euro al metro quadrato per un capannone. Non è possibile che le istituzioni non siano con noi quando andiamo all’estero. Lo Stato deve aiutare le imprese che vanno bene e non quelle decotte, come la Ghigi, ad esempio. Troppi aiuti gettati al vento”.
CURIOSITA’
Aiuti export, troppa burocrazia
– La Regione Emilia Romagna ha messo sul piatto una serie di aiuti ai piccoli e medi imprenditori che se ne vanno in giro per il mondo a tentare la carta delle fiere. Sei aziende si sono consorziate per attingere ai fondi per andare a Pechino per partecipare ad una importante fiera l’anno prossimo in primavera. Gli imprenditori lamentano la quantità di scartoffie che hanno dovuto presentare (troppe, quasi infinite) e il fatto che sono dovuti andare perfino davanti ad un notaio per la costituzione di una società momentanea, altrimenti non avrebbero potuto accedere ai finanziamenti.
Amaro sfogo di un operaio: libero mercato e benessere sociale
LA LETTERA
di Giorgio Fabbri*
Senza discutere la premessa che in una società di mercato l’impresa è ciò che crea ricchezza e lavoro, preme sottolineare come in un regime democratico la conseguenza necessaria sia che l’impresa stessa promuova anche sviluppo e benessere sociale.
Ebbene, recentemente, al seguito di una delle peggiori crisi economiche dal dopoguerra, sono accaduti fatti che hanno condotto quantomeno a dubitare di tale “consecutio”. In nome dell’emergenza, soggetti di spicco del mondo economico non hanno tardato a ricorrere a provvedimenti a dir poco repressivi. Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, con un vero e proprio ricatto, toglie di fatto alle parti sociali la possibilità della contrattazione. Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, lamentando le posizioni vetuste di un certo modo di far sindacato, richiede maggior disponibilità e sacrificio ai lavoratori (in cambio di cosa?). La Scm, azienda locale leader mondiale nel settore delle macchine per il legno, nel suo assetto di ristrutturazione, snobba letteralmente gli accordi aziendali sottoscritti e, minacciando di de-localizzare la produzione, pretende che le istituzioni provinciali condividano tale politica senza riserve.
È questa dunque la ricetta che ci porterà fuori dalla crisi? Se così è sembra che, da subito, al dovere di chi lavora sia da applicare una forte riduzione dei diritti (in fondo c’è un imponente esercito di disperati, italiani e stranieri, pronto a rinunciarvi pur di sopravvivere), e pare che l’equazione libero mercato e benessere sociale finisca per essere un motto da sbandierare in qualche convegno di carattere liberal-mondano. Come dire: “Oremus sull’altare e flatulenza in sacrestia”.
Amaro sfogo di un operaio
Bargellini: “Ripresa grazie alla nostra tecnologia, agli sgravi fiscali e euro debole”
Cina: grandi opportunità, grandi difficoltà
Il riminese Marco Serra da anni lavora a Pechino in partnership con i cinesi
Quello cinese è mercato dove le facili opportunità sono finite da anni. Immediatamente il business non lo fai, devi esser pronto ad anni di sacrifici. E’ meglio entrare in partnership con i locali. Anche in Cina però le relazioni interpersonali sono importanti. Un operai là in regola costa 250 euro al mese
L’INTERVISTA
– Finalmente. Finalmente. Finalmente. Uno che ti dice che far le cose è difficile ma possibile. Uno che afferma che l’impegno va bene, le idee sono un’arma preziosa, ma tutto è arduo e che ci vuole un pizzico di fortuna quella cara a Napoleone. Che quando nominava un generale doveva essere oltre che bravo, avvolto dalle grazie della dea bendata.
Marco Serra è un bel riminese. Ha 36 anni e da anni lavora in Cina, a Pechino. Cerca di far bene il proprio mestiere facendo fare gli affari ai cinesi e agli italiani. In pratica la sua società fa da ponte tra gli imprenditori nostrani con quelli con gli occhi a mandorla. Tra l’altro è sposato con una cinese ed ha un figlio.
Bocconiano, prima di mettersi in proprio, ha fatto il consulente aziendale. Forse meno impegnativo e più facile, ma di gran lunga meno divertente. Serra si occupa di tessile ed abbigliamento. Ha appena messo in contatto alcune aziende italiane con il potenziale mercato cinese. Avviene questo, i brand tricolori, “Zu Elements”, “Phard”, “Fabi” ricevono delle royalties dalle aziende cinesi che preso lo stile italiano producono per il solo mercato cinese. Argomenta il giovane riminese: “Far produrre con la licenza significa ridurre la catena produttiva; significa avere meno intermediari. Il risultato finale è che all’acquirente lo stesso prodotto costa molto meno. Mi piace ricordare che il capo di un grande marchio che alla produzione cinese costa 8 euro, si trova sul mercato dell’Occidente a 150 euro. E quello del taglio dei passaggi intermedi, costosi e inutili, è una filosofia che viene adottata dalle grandi aziende. Ci sono fior di brand che hanno fatto tale scelta in largo anticipo e che in questo momento se la cavano meglio dei concorrenti”.
Serra alza la riflessione anche sulla capacità competitiva del tessile abbigliamento italiano. Il nostro Paese nel 2000 valeva il 50 per cento della produzione mondiale; oggi la percentuale è scesa al 20. Fetta di torta importante ma in un decennio ci siamo mangiati capacità produttiva, posti di lavoro e capacità di stare sui mercati. Si potrebbe dire che i nostri imprenditori hanno sbagliato, hanno puntato sulla ricerca sull’innovazione, che significano costi, non pensando alla vendita al dettaglio, vendere non è meno importante della qualità. Oggi, è la distribuzione che detta legge, che fa le fortune”.
“I cinesi – continua nella sua riflessione figlia dell’esperienza – sono competitori formidabili quanto difficili. Sono abili, hanno la qualità al prezzo più basso, hanno alzato la barriera dei dazi che rendono più salati e meno competitivi i manufatti forestieri. La cosa migliore è scendere in partnership con loro. Tutte queste sono semplicemente delle opportunità da coltivare, perché nessuno ti dà niente per niente. La Cina è sempre più una nazione acquirente, un grande mercato, ma difficilissimo. Nel tessile abbigliamento soprattutto per i piccoli e medi marchi; anche perché il multimarca sta sparendo. Ed è difficile con un solo prodotto reggere l’urto dei costi di un negozio. Non sono molte le aziende italiane in grado di sbarcare in Cina. Per farlo ci vuole il brand, una buona capacità finanziaria, un buona capacità organizzativa. Poche le aziende che hanno fatto una bell’entrata: Moncler, Zegna, Max Mara”.
Come entrare nel mercato? Serra: “Partendo dal presupposto che opportunità significa anche difficoltà, è meglio tentare in partnership con i cinesi. Ma all’inizio i soldi non si fanno; bisogna essere pronti ai sacrifici almeno nei primi anni. Anche in Cina le relazioni interpersonali sono importanti. Ad esempio possono non rispettare il contratto, ma sono molto propensi a restituire le eventuali cortesie”.
In Cina un operaio in regola costa circa 250 euro al mese. I dirigenti guadagnano come in Italia.