Ragioniere, venne arruolato come ufficiale. Della seonda guerra ricordava un aspetto di gratuita, stupida violenza, posta in essere dagli inglesi, che li avevano fatti prigionieri, consistente nel farli sfilare, lui, gli altri ufficiali, ed i loro soldati, scalzi, per le vie di Calcutta, tra due file di gente che schiamazzava
LA STORIA
– Sono stati sicuramente tanti i riccionesi che, nel secolo appena trascorso, furono chiamati, in divisa, a combattere nei vari fronti delle guerre o parteciparono a quella di liberazione come partigiani. Purtroppo, a parte i nomi dei caduti scolpiti nel monumento funebre eretto dal Comune in loro memoria, non esiste una pubblicazione che raccolga le testimonianze, e magari la documentazione fotografica, di tanti ragazzi, allora, che furono costretti a partecipare, alle sciagurate guerre in cui il paese fu coinvolto.
Per cominciare, alquanto significativa, e per tanti aspetti quasi unica, la storia del riccionese Giuseppe Perini (1894-1990), al quale il destino assegnò il poco invidiabile compito di dover partecipare a ben tre conflitti: prima e seconda guerra mondiale e, tra questi due eventi, la famigerata guerra d’Africa, quando il regime decise che l’Italia dovesse allargare le sue colonie con la conquista dell’Etiopia. Gli fu risparmiata la guerra di Spagna, in quanto si trovava nella materiale impossibilità di essere presente in due teatri di guerra, contemporaneamente, non possedendo il dono dell’ubiquità. Da notare, subito, che Giuseppe Perini non era un militare di carriera, per cui certe situazioni potrebbero rientrare anche nella normalità, non un volontario, attratto dal cosiddetto fascino dell’avventura, ma semplicemente un giovane, diplomato ragioniere, la cui prima aspirazione, prima ancora di un buon impiego, era quella di possedere un pezzo di terra e dedicarsi, con passione, all’agricoltura. Avendo conseguito un diploma di secondo grado, allora diplomati e laureati erano percentualmente ben inferiori rispetto al presente, al momento della chiamata per il servizio di leva, nel 1914, obbligatoriamente, dovette frequentare il corso allievi ufficiali con il conseguimento, al termine, del grado di aspirante, e ben presto, allo scoppio della guerra, come sottotenente di fanteria, si trovò al fronte, in prima linea, per tre anni.
Salvo qualche ferita di poco conto, a suo dire, in mezzo ad attacchi e contrattacchi, che decimavano interi reparti, riuscì a tornare a casa, con il grado di tenente. In seguito, ormai avanti con gli anni, alla domanda dove avesse trovato tanto coraggio, lui e gli altri che lo seguivano, sorridendo, era solito rispondere che c’era di mezzo l’onore, il senso del dovere, la Patria, ma soprattutto il rischio di finire davanti al plotone di esecuzione, per codardia di fronte al nemico, e la corte marziale, notoriamente, non era tenera nei confronti di chi, impartito l’ordine, non avanzava verso il nemico.
Al termine del conflitto, non gli mancarono encomi solenni, croci al merito, nomina a Cavaliere della Corona d’Italia e via dicendo, e forse, grazie a questi riconoscimenti ufficiali, affermatosi il regime fascista, sarebbe potuto entrare in politica, ambire a posti di prestigio nella pubblica amministrazione, ma Giuseppe Perini non era, e non si sentiva, il tipo adatto a svolgere una siffatta attività, e riprese a lavorare, come ragioniere, in ditte in cui era necessaria la presenza di un onesto responsabile contabile.
Congedato, quindi, con il grado di tenente, un ufficiale che si era distinto durante la guerra, responsabile di un reparto di “mitraglieri”, periodicamente era richiamato, negli anni successivi, per periodi di aggiornamento, che di certo non giovavano alla sua carriera di ragioniere, anche se, ovviamente, non comportavano la perdita del posto di lavoro. Come è facile intuire, ben diversa sarebbe stata la sua posizione se, invece di svolgere un lavoro presso privati, fosse stato un pubblico dipendente.
Con l’inizio della guerra d’Africa, con la quale l’Italia mirava a formare l’Impero invadendo l’Etiopia, ben presto Giuseppe Perini si vide recapitare la famosa cartolina di chiamata alle armi, e si ritrovò a combattere, con il grado di capitano, la sua seconda guerra a capo, tra l’altro, di un reparto di truppe coloniali.
Terminate le ostilità, non ancora congedato, e in servizio come istruttore, salvo qualche breve licenza per rivedere la famiglia, fu colto, nell’allora colonia italiana, dallo scoppio del secondo conflitto mondiale. Dopo tante vicende, fatto prigioniero dagli inglesi, fu inviato in un campo di concentramento in India, e per alcuni anni considerato disperso, prima che la Croce rossa fosse in grado di dare notizie dell’interessato alla famiglia.
Infine, dopo tante peripezie, finalmente, nel 1948, il primo capitano Giuseppe Perini, riuscì a ritornare in Italia e nel suo paese, Riccione, dal quale era partito tanti anni prima. Una storia a lieto fine, come tutte le storie che si possono raccontare, ma che presenta aspetti paradossali, se si considera che un cittadino come questo, dopo aver prestato complessivamente quasi quindici anni al servizio dello Stato, nel corso di tre guerre, si è trovato a vivere o, meglio, a sopravvivere, lui e la sua famiglia, con i modesti introiti di una pensione al minimo, ottenuta con i contributi, spesso figurativi, che volontariamente, nel corso degli anni, aveva versato. Tra l’altro, nei mesi estivi, per integrare la magra pensione, lavorava alla contabilità di alcuni alberghi.
Ironia della sorte, Giuseppe Perini, se invece di aver lavorato presso privati, come accennato, fosse stato un dipendente pubblico, non importa di quale grado, avrebbe potuto usufruire della legge sui combattenti e di tutti i notevoli benefici previsti. Non si può non rilevare l’assurdità di una legge, forse una delle peggiori di questa Repubblica, che ha operato una assurda, grottesca discriminazione tra ex combattenti “privati” e “pubblici”.
Infine, dell’ultima guerra, della quale preferiva non parlare, ricordava, tuttavia, un aspetto di gratuita, stupida violenza, posta in essere dagli inglesi, che li avevano fatti prigionieri, consistente nel farli sfilare, lui, gli altri ufficiali, ed i loro soldati, scalzi, per le vie di Calcutta, tra due file di gente che schiamazzava. Eppure, nonostante tutto, chi lo ha conosciuto, lo ricorda tuttora come un uomo di una grande onestà intellettuale e tanta non comune dignità, sempre pronto alla battuta, una delle quali, in dialetto, “che rossi, bianchi e neri, una volta raggiunto il loro scopo, sono tutti uguali”.
Nominato colonnello nella riserva, e naturalmente Cavaliere di Vittorio Veneto, negli ultimi anni della sua vita, si dilettava a coltivare un piccolo orto, una passione questa che non lo aveva mai abbandonato, e non farsi mai mancare i suoi sigari toscani, dei quali era un affezionato fumatore sin dai tempi della giovinezza.
Fosco Rocchetta