SGUARDI D’ARTISTA
di Annamaria Bernucci*
– La sua energia contagiosa si traduce in una immediata disponibilità a dialogare e a raccontarsi. Vulcanico, schietto, Giò Urbinati si presenta così, dotato di questa sua ‘febbre’ latente che investe ogni gesto che fa, ogni discorso che riconduce al suo operare artistico. Stempera con l’arguta profondità delle battute la sua lunga esperienza nel campo dell’arte, rendendo attuale e incisiva per i contenuti e per l’espressività l’antica eredità tecnica, manuale della ceramica.
Il grande laboratorio, dalle parti della Gaiofana, fa da sfondo, stipato di ceramiche, modellati, tra la luce degli smalti e le penombre che si addensano in mezzo alle argille plasmate sulle mensole ad essiccare. Terre refrattarie, ingobbi, decorazioni a terzo fuoco. Mostra i forni di cottura.
Ogni angolo si tramuta in un luogo fantastico, la bottega di un ceramista è per definizione un ‘antro’ magico e alchemico, lo è per la natura stessa degli elementi in gioco che da un tempo remotissimo, come ama sottolineare l’artista da subito, combina la terra con il fuoco. L’invenzione della ceramica segna una tappa nella storia dell’umanità, è conosciuta sin dai tempi preistorici, dal neolitico, come elemento di progresso e come atto creativo, è presente in tutte le culture archeologiche, con manufatti d’uso, idoli e divinità realizzati con la terra.
Giò Urbinati lavora su un ventaglio di stili e di forme amplissimo, sostenuto da una grande perizia maturata in una pluridecennale attività come ceramista.
“Ho cominciato da bambino – dice – a giocare con l’argilla quando d’estate andavo dai miei nonni in collina: là vicino c’era un pozza d’acqua scavata da una bomba: passavo ore a plasmare forme con la terra. Il resto dell’anno a casa dai miei, alla periferia di Rimini, aspettavo che qualche temporale bagnasse la terra dei fossi”.
Racconta dei suoi inizi, presso l’atelier di ceramica di Carla Birolli ‘La stella Alpina’, a Rimini dove ora è piazzale Kennedy. “Ragazze c’è da sfornare il biscotto!” era il richiamo della titolare in quel contesto di lavoranti tutto al femminile, a parte l’anziano torniante; il suo talento non sfugge a Benito Balducci e a Rosetta Tamburini formatasi al Mengaroni di Pesaro che in quella bottega lavoravano e che gli riservano i loro insegnamenti.
Poi la strada se la costruisce letteralmente “con le mani nell’argilla”, sino alle prime mostre che risalgono agli anni ’80, la prima bottega a soli 23 anni al Borgo S.Giuliano in viale Matteotti, i primi concorsi a Gualdo Tadino e a Faenza, le partecipazioni a rassegne nazionali come la I Biennale d’arte di Tarquinia assieme a Sebastian Matta e Piero Dorazio o l’ultima in ordine di tempo (2010) a Vilnius (grazie alla Art Gallery S.Teresa di Fano) occasione inedita di scambio tra Italia e Lituania per l’arte ceramica come punto d’incontro di culture diverse.
Negli anni ’80 c’era stato l’incontro folgorante, rapinoso con Tonino Guerra. Giò Urbinati ne è stato l’inteprete e il cantore; forse di più: ha reso tangibile la lingua del poeta; ma la scorrevolezza, l’inventiva, la magia della materia sono tutte sue: Il giardino pietrificato di Torre di Bascio, L’Arco delle favole ne l’Orto dei frutti dimenticati a Pennabilli raccontano di un fervido sodalizio, dove la parola e il sorriso, la materia plasmata e la cifra dello scultore emergono nitide.
Giò Urbinati sa disciplinare la duttilità della terra e la trasforma in infinite varianti; in tempi anticipatori ha sperimentato il raku – e Giò racconta della contemporaneità e della tradizione giapponese di questa antica tecnica nata alla fine del XVI secolo, sintomatica dello spirito zen . L’impronta plastica, lo scatto dinamico delle sue ceramiche hanno desinenze informali, ma anche affermazioni classiche, la figurazione – dice- non è certo uno spartiacque.
Dai totem, alle grandi piastrelle smaltate alle teste ciò che prevale è il fatto scultoreo e ceramico. Dialoga col mito Giò Urbinati, e col sogno. Il gorgoglio della vita racchiusa nell’incavo dei petali di una rosa insidiata da un bruco o il tintinnare di sottilissime foglie secche sottratte all’autunno che la ceramica rende ancora più fragili appartengono ad un racconto favoloso. La favola della vita.
Si confronta con temi universali, ad esempio il tema del viaggio; con il racconto del viaggio per antonomasia, quello di Ulisse, metafora del desiderio di un altrove da trovare e della nostalgia delle proprie origini. Gioca con il teatro della vita. Lo fa con i suoi Teatrini che mostra orgoglioso, esili figure ceramiche appese su un immaginario palcoscenico di legno.
Prossimamente (agosto 2011) proporrà una mostra dal titolo Cento ciotole e un vaso ai Musei di Rimini: la ciotola, dice, è etica: una casa non è mai vuota se sulla tavola c’è una ciotola. E’ il contenitore per cibo e bevande di forma semicircolare presente dall’età del bronzo indistintamente in tutte le civiltà del mondo.
Giò Urbinati non dismette mai un dialogo con la storia dell’arte e materiale, riconsidera le antiche vocazioni oggettuali della ceramica, dal mito alla realtà. Come non pensare all’antico culto verso quel Keramos greco ateniese, dai genitori divini (Dioniso e Arianna) e dalla figura leggendaria da cui prenderebbe il nome la tecnica ceramica che di generazione in generazione è arrivata ai nostri giorni?
*Direttrice della Galleria comunale S. Croce di Cattolica