PERSONE
di Silvio Di Giovanni
– Dal balcone del mio alloggio, posto sul fianco, verso Via Trieste, sono dirimpettaio, alla stessa altezza di piano al di là della strada, al balconcino della casa della Luisa.
La Luisa, il prossimo mese, compie 99 anni e legge il giornale e commenta gli articoli con un interesse ed una passione da far invidia al più bravo dei lettori.
Negli anni passati sovente si recava da sola sul suo balconcino nei giorni di tempo buono e, quale attenta dirimpettaia, dopo aver letto da cima a fondo “la Piazza”, mi plaudiva o mi riprendeva, a seconda che, quel mese, avesse riscontrato oppure no, la presenza di un mio articolo. Nel secondo caso la sua puntualizzazione era netta: “Però stal mese an te scrit gnint”.
Ora si reca più di rado sul balconcino e su una sedia a rotelle spinta dal figlio o dalla figlia oppure dalla badante e solo quando la temperatura è molto favorevole.
Quanto mi è caro il complimento che ogni tanto continua ancora a farmi quando, trovando un mio articolo, dopo averlo letto e commentato, mi dice: “…Sivioo… cum scriv been..!!”.
La Luisa Antonioli è conosciuta dai cattolichini come: “La Luisa dal forne” ovvero la moglie di “Tunen dal forne”.
Al pianterreno della sua casa c’era, per l’appunto, il forno del pane. Era una bottega di due vani e suo marito Antonio Gabellini era il fornaio conosciuto da tutta Cattolica.
Vi erano, ed in parte vi sono ancora, anche altri forni nella cittadina: uno in via del Porto di Tirincanti, uno in via Pascoli della Lucia di fronte la Caserma dei Carabinieri, uno in via Cavour di Bartulen, due in via Emilia Romagna di cui uno di Tonino Pecci ed uno di Quinto Pagnini dopo il ponte sul Ventena, uno era in via Marconi di Palmiro Gaudenzi, uno era in Via Bologna di Grossi (Mistrà), poi c’era quello di Talacchi detto “Giustin” sotto l’androne tra la salita di via Pascoli e la via Milazzo, un altro era in via Giordano Bruno che ora non c’è più, poi c’era quello dei Pierpaoli, detti “Caldaren” , sempre nella via Trieste, come quello di “Tunen”.
Quanti ricordi dalla fanciullezza. Nelle giornate attorno alle feste pasquali, natalizie e di fine anno, aleggiava nelle vie attorno ai forni il piacevole odore “dal ciamblon”, allora tanto, ma tanto, più gradito di oggi, data la fame congenita che aleggiava in parecchie case.
Nel forno, la maggior parte della gente non andava a comperarlo il pane, ma andava a cuocerlo. Una volta alla settimana (a casa nostra era prediletto il sabato mattina) la donna di casa preparava l’impasto alla sera del giorno prima. L’impastava nella madia con farina, acqua, sale e lievito che si andava ad acquistarne, un pezzetto, dal fornaio, il giorno prima.
In ogni casa c’era la madia in cucina. Ora non esiste più. I giovani non sanno nemmeno che cosa sia. Non l’hanno mai vista infatti, né alcuno glielo ha mai detto o descritta, probabilmente.
In casa nostra la consuetudine di panificare una volta alla settimana ed andare a cuocere nel forno di Tunen, era un compito di mia madre, Antonia ed era amica della Luisa. Ora mia mamma non c’é più da molti anni. Io me la ricordo l’opera di preparazione dell’impasto, fin da prima della guerra. Quando, nel 1942 – 43, era venuto a meno la provvista della farina di grano, si dovette anche fare il pane con farina di cereali più scadenti, ad esempio con quella di polenta. Il risultato era un filoncino tosto e duro, arricchito con un poco di zucchero, che prendeva il nome di “pinza”, di colore giallognolo.
Mia moglie, nei primi anni del nostro matrimonio, alla fine degli anni ’50, continuò questa usanza, come mia mamma, fino a quando la continuarono a coltivare le altre famiglie. Poi, il cambiamento dei tempi e dei modi di vita e perché no, le stesse nostre esigenze che venivano cambiando, determinò l’abbandono di questa secolare tradizione e si optò per l’acquisto del pane fresco, giornalmente, dal fornaio.
La Luisa era la costante continua presenza dietro il bancone della stanza più piccola, che era l’accesso principare della bottega; suo infatti era il compito di ricevere e servire la gente. “Tunen”, con la maglia a mezze maniche e con la sua testa bianca e luccicante, completamente calvo, nell’ambiente attiguo per la lavorazione e la cottura del pane, le cui pareti erano piastrellate con le tipiche mattonelle bianche di ceramica, era il fornaio indubbiamente più conosciuto ed amato dai cattolichini, per la sua bontà e generosità d’animo.
Ricordo che in occasione della sua morte, tredici anni fa, il cui funerale per sua scelta non lo volle pubblicizzato, una signora, che al tempo di guerra abitava nella vicina via Zara, mi confidò, una settimana dopo la sepoltura, il suo disappunto per non averlo saputo e non avergli quindi potuto rendere l’omaggio che si meritava, almeno in quella ferale occasione.
Mi raccontò infatti che al tempo di guerra, mentre erano, lei e la sua famiglia, completamente sguarniti di tutto e con la fame, il fornaio “Tunen”, li sfamò per mesi con pane e farina per lei e tutta la sua numerosa famiglia, così come fece anche per altre persone.
La Luisa non era solo il perno della casa, ma anche l’elemento principale della bottega del fornaio, forse quello trainante ed importante, come in genere lo sono le mogli dei lavoratori in proprio.
Ora, in questa avanzata età senile, con la grande fortuna di avere la mente come quando era giovane, si gode la meritata età delle persone sagge che alternano l’ovvio riposo all’interesse per i fatti politici, i fatti di vita e delle opere degli altri, circondata dall’affetto dei suoi figli: Francesco (Checco per gli amici) e Margherita e dei suoi nipoti, nonché dall’affetto di quanti la conoscono e la collocano, nella visione nostalgica del passato, in un ricordo della sua confortante presenza dietro il bancone della sua bottega, che riempiva un quadro di vita di un tempo che oggi non c’è più.