di Alessandro Sistri*
– Qui da noi il ritorno ciclico di certi argomenti che riguardano il turismo è una delle poche certezze che ci rimangono.
Il ripresentarsi di alcune questioni segue ritmi stagionali ormai consolidati. Ci sono gli annunci e i consigli di primavera (comprensibilmente metereopatici: il sole porta belle speranze, le nuvole profondi dubbi esistenziali), il rincorrersi delle esaltazioni e delle lamentele estive, e, a chiudere il ciclo, le considerazioni e le ricette della collezione autunno-inverno, di solito dedicate a cosa fare e non fare per “tenere”.
Del ripetersi continuo di questi argomenti in una terra che vive in larga parte di turismo non c’è da scandalizzarsi: non solo molti soldi arrivano ancora di lì, ma lì, è impossibile negarlo, affondano le radici di ciò che, nel bene e nel male, siamo diventati negli ultimi 150 anni.
Sarebbe sciocco non ammettere che questa provincia, la sua economia ma anche il suo immaginario interno ed esterno (come ci vediamo e come ci vedono gli altri), i suoi sogni, le sue contraddizioni, hanno come orizzonte primario il mare e la spiaggia, gli ombrelloni e i lettini, gli alberghi, i viali, le luci, certe mitiche leggerezze della costa.
Ma la provincia non è solo e tutta balneare e allora già da qualche decennio si discute di come far partecipe della luccicante fortuna del turismo anche quel pezzo di terra che non bagna i piedi sulla battigia, ma li appoggia sulle colline e oggi, con l’ingresso dell’alta Valmarecchia, addirittura sui monti.
Da tempo si dice che costa ed entroterra devono integrarsi.
Che cosa vuol dire?Come farlo? Anche di questo si è discusso tanto negli ultimi trent’anni.
E’ un po’ di tempo che mi occupo della questione e sono arrivato se non a delle conclusioni perlomeno a farmi qualche idea.
Che il turismo per l’entroterra sia potenzialmente importante in termini economici e sociali e che ci possa essere un rapporto di mutuo vantaggio turistico tra area balneare e aree interne diamolo per certo, anche se alcuni aspetti e casi andrebbero opportunamente approfonditi.
E’ un fatto però che questa benedetta integrazione, tranne alcune particolarissime eccezioni, fino ad oggi non si è certamente espressa al meglio, ancora non produce quello che ci si aspetta da parte di tutti, sia nell’entroterra sia sulla costa. L’attività legata all’ospitalità nelle aree interne è ancora largamente “approssimativa”, vede qualche esperienza positiva ma non è diventata un reale e apprezzabile punto di riferimento economico, imprenditoriale, sociale, culturale.
Facciamo bene a dirci da decenni che l’entroterra è bello, che le potenzialità ci sono, che i patrimoni a disposizione (storico, artistico, paesaggistico, enogastronomico, ecc) sono davvero buoni, è però evidente che non possiamo rimanere eternamente fermi su questo punto, qualcosa deve succedere. Tutti, in tutto il mondo, per fare turismo dicono di essere belli e bravi, ripeterlo serve a poco.
La buona volontà c’è, i patrimoni ci sono, la comunicazione – anche di buon livello – c’è, ma allora cosa manca?
Mancano, per dirla con parole povere, un prodotto vero e distinguibile sul mercato, una proposta omogenea, un’attività d’ospitalità (ricettivo, ristorazione, visite, ecc.) strutturata, “di sistema”, ben ramificata su tutta l’area interna. Manca nelle comunità locali (per motivi diversi e non tutti imputabili a loro) un riconoscimento reale della prospettiva turistica, ed è certo che senza l’adesione autentica e ampia di queste comunità (componenti pubbliche, private, cittadini) il turismo nell’entroterra non si fa, o si fa così com’è oggi.
Non credo sia possibile trovare una soluzione attraverso ricette magiche, pozioni miracolose, pillole di marketing concentrato, strategico, emozionale, virale, tribale e tutti gli altri aggettivi che si appiccicano oggi al marketing, seguendo forse più le mode che una vera riflessione tecnico – scientifica.
La soluzione richiede, secondo me, che accanto ai vari progetti che sostengono le iniziative locali (sicuramente importanti per la promozione di ciò che esiste, la realizzazione degli eventi, il lavoro di amministrazioni e operatori), accanto alle azioni di marketing e comunicazione, prenda corpo quello che si può definire un vero e proprio progetto sociale.
Il turismo esige un pensiero forte e allargato che riguarda, solo per citare alcuni aspetti, la gestione del paesaggio e del territorio nel suo complesso, la politica fiscale e degli incentivi economici, la qualità dei servizi, una visione chiara delle esigenze delle comunità locali e delle problematiche dei cittadini e degli imprenditori che ci vivono, una politica d’identità culturale molto forte, un’attenzione continua alla formazione, ecc.
Un buon progetto sociale riguarda direttamente la costruzione delle opportunità economiche e occupazionali riferite al turismo ma anche la coesione delle comunità stesse, la consapevolezza di ciò che si è e che si può fare, l’orgoglio di uno stile di vita e di presentarsi agli altri con la forma e la sostanza migliore.
Per arrivare a questo è necessario che ognuno faccia la propria parte: le amministrazioni di ogni livello con una programmazione solida nei contenuti, non episodica e su tempi giusti, gli operatori della costa attraverso una disponibilità a “dialogare” con l’entroterra che, a onor del vero, mi sembra aumentata rispetto a un tempo, i cittadini e soprattutto gli operatori dell’entroterra con uno sguardo alle caratteristiche del luogo in cui vivono e alla qualità dell’ospitalità che propongono.
La qualità è, ancora una volta, la parola chiave, una parola che, aimè, vuol dire tante cose. Non vuol dire ovviamente proposte “lussuose”, ma capacità di dare soddisfazione agli ospiti a costi percepiti come giusti, vuol dire offrire un contesto complessivo piacevole, il meno deturpato possibile, vuol dire una preparazione professionale e un atteggiamento umano davvero ospitale.
Sulla strada della qualità turistica nell’entroterra ci sono diversi ostacoli: alcuni assolutamente evidenti (costi d’impresa, tempi di ammortamento degli investimenti, ecc.), altri più subdoli ma non meno concreti. Il primo chiamiamolo “il miraggio della costa” e il secondo “il complesso degli spiccioli”.
Sul primo c’è poco da dire: il turismo nell’entroterra se paragonato a quello della costa (che resta comunque una delle aree turistiche più importanti d’Europa) non ha e non avrà mai gli stessi ritmi e lo stesso stile. Pensare che la gente arrivi in modo quasi “naturale” (non lo pensano ormai più in molti neanche sulla costa) non funziona proprio. Per farla arrivare nell’entroterra non basta pensare che sulla costa ce n’è tanta, e non si può certo proporre uno stile di vacanza e ospitalità così “industriale”.
Il secondo, “il complesso degli spiccioli” riguarda una visione complessiva del turismo nelle aree interne. E’ chiaro che rispetto agli enormi affari del turismo di costa i numeri dell’entroterra in termini di presenze e d’impatto economico possono sembrare davvero poca cosa, forse non possono che essere considerati spiccioli, ma spiccioli importanti.
E’ la prospettiva che deve cambiare: per gli operatori dell’entroterra (per i quali è già molto difficile pensare che la propria struttura abbia la reddività di una struttura sulla costa) è fondamentale pensare di non essere il “residuo” di una macchina enormemente più potente e più veloce, ma al contrario di essere un pezzo, piccolo ma molto importante, della nostra provincia. Un pezzo di territorio e di società che negli anni può crescere anche attraverso il turismo, può dare un futuro più che dignitoso a generazioni che scelgono di non vivere nelle città di costa. Tutto questo con i problemi ma anche con i ritmi e le qualità possibili solo sulle colline e sui monti.
*Professore di Teoria e tecnica della promozione territoriale all’Università di Urbino
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