Per il ciclo “Le Grandi Interviste della Piazza” oggi pubblichiamo quella a Vito Di Bari (vai all’intervista precedente del 22/04/2012). La prossima domenica 6 maggio, online alle 8 in punto.
Vito Di Bari (foto) deve tutto ai propri difetti. Considerato tra i maggiori esperti di innovazione al mondo, hanno scritto di lui anche due Nobel per l’Economia: Kenneth Arrow e Laurence Klein. Il primo ha osservato: “Elabora sogni. Sogni possibili, basati su solidi fatti”. Il secondo: “Il Diagramma Di Bari dell’innovazione digitale mi colpisce per la singolare corrispondenza con ilconcetto di convergenza perseguito dai singoli Paesi europei”. Cinquant’anni, una figlia, insegna alla Bocconi e al Politecnico di Milano, dove coordina un gruppo di cento ragazzi che si occupano di comunicazione avanzata per colossi come Generali, Banca Intesa, Rai, Mediaset. Difetti, si diceva. Era bravissimo fin dalle elementari e come tutti i cocchi degli insegnanti era naturalmente antipatico. Per sembrare l’esatto contrario, simpatico, da allora, tende all’autoironia, alla battuta rivolta a sé stesso. A far apparire tutto semplice, facile, fin banale. Davanti a centinaia di liceali assiepati nell’aula magna del Liceo Einstein di Rimini per far mettere in testa che cos’è la pausa in tecnologia, invita una professoressa (naturalmente, tra le più carine), con suo bellissimo imbarazzo, a danzare, al passo dobler. Tra un movimento e l’altro, c’è la pausa. Quella tecnologica, che interessa agli economisti, al futuro delle nazioni. è questa: dal momento dell’invenzione di un marchingegno al suo successo commerciale trascorrono anni. Ed è in quegli anni che qualcuno ne deve approfittare. Esempio, il cellulare venne inventato nei laboratori alla fine degli anni ’40, ma è diventato oggetto di largo consumo da pochi anni.
Professore, come vede il futuro dell’economia italiana?
“Per coscienza professionale, dovrei dire che ci vorrebbe un libro per argomentare. Proviamo a rispondere. Vedo un periodo molto faticoso sul breve termine; sono anni di assestamento. Nel medio e lungo termine, dipenderà molto dalle scelte del Sistema-Paese e sulla ricerca e lo sviluppo. Il vantaggio competitivo italiano del passato era fatto da creatività, passioni, impulso e in alcuni casi di distretti di eccellenza. Noi dobbiamo schierarci in campo, pensando al contropiede e non tentare di giocare a centrocampo, come potrebbero fare gli stranieri. In Italia abbiamo il reticolo della filiera molto frammentata, con le piccole e medie industrie impossibilitate a fare ricerca e sviluppo per essere competitivi. Non ce la possiamo giocare sul costo del lavoro. La creatività e la passione vanno sorrette dalla ricerca che deve avvenire attraverso il governo centrale, le Regioni, oppure devono essere le associazioni degli imprenditori a farsi carico del problema. Se responsabilmente, qualcuno non si farà carico di dare alle piccole imprese agenzie che favoriscano la competizione tra 10-15 anni avremo tempi molto duri”.
Ma davvero si innova poco in Italia?
“Sono un ottimista riflessivo ed è vero, ma vanno fatto due distinguo. In Italia c’è poca innovazione con i fondi pubblici e molti vanno dilapidati in una Università incapace e inconcludente. La sfida delle grandi Università americane è mettersi al servizio della crescita economica. In questa situazione le imprese si sconfortano. Invece, la musica cambia all’interno delle singole imprese: una su tre ha introdotto l’innovazione o sul processo di produzione, o su nuovi prodotti. Insomma, abbiamo due paesi, uno che dichiara che bisognerebbe fare innovazione e però non la fa, o la fa male. Dall’altra parte entità piccole come le imprese che si dannano l’anima in una situazione di totale incertezza amministrativa. Diciamo che in Italia l’innovazione è come il sesso, chi più ne parla meno lo fa. Questa è la situazione che ho visto tornando dagli Stati Uniti, dove ho vissuto molti anni”.
I pregi della nostra classe imprenditoriale?
“Due gruppi. Non ci sono le grandi imprese, ma c’è il grande tessuto connnettivo della piccola e media azienda; una pantofola alla quale ci siamo abituati benissimo. Il vantaggio del piccolo è la flessibilità. Lo svantaggio sono gli investimenti sul lungo termine. Però siamo un popolo di imprenditori, di creativi, attivi, con la capacità di guardarsi intorno e andare in giro per il mondo. Siamo un esercito di elfi, di nani eroici e motivati, ma che in lotta con i giganti un po’ restano schiacciati. L’approccio eroico dell’impresa è difficile da sostenere”.
Si parla sempre di Sistema-Paese, ma che cosa chiedere alla politica?
“Ci si è dimenticati che la politica è creare le premesse di crescita dei propri individui. Sono signori mandati lì da noi per gestire la cosa pubblica: far funzionare le cose di nessuno ma di tutti e far star bene il cittadino individualmente. I due obiettivi da molto tempo non lo stanno centrando. Da parte loro ci vorrebbe un po’ meno sensazionalismo e un po’ più di politica economica. La legge sulla rottamazione viene fatta in 32 secondi; le urgenze per le piccole industrie che richiedono 32 secoli: c’è qualcosa che non quadra”.
L’etica serve in economia?
“A mio parere non è un optional, ma un obbligo, uno dei vantaggi competitivi. Il principale fattore di vantaggio competitivo del futuro sarò la fiducia, reciproca”.
Tra gli imprenditori italiani, chi le piace di più?
“Difficile rispondere; ne conosco tanti e molto bene. Dovessi sceglierne uno, direi Matteo Cordero di Montezemolo. Gestisce marchi come Poltrana Frau, Ballantyne. Trovo che questo giovane abbia un mix fenomenale di missione di alto profilo e pragmatismo. Cosa che mi ha molto impressionato. Capisce in modo naturale i punti di forza e di debolezza de un’azienda, con la la capacità di tradurre l’analisi nel fare impresa”.
Lei, come si definirebbe?
“Uno che si è inventato un mestiere utilizzando i difetti caratteriali. Dopo aver imparato qualcosa e raggiunto degli obiettivi mi prende la noia e la conseguente caduta di interessi. L’altro difetto è che sono una specie che tende a vivere spostato nel futuro. Catalogo e archivio il passato, guardo l’avvenire, ma vivo poco il presente. E su questi due difetti ho costruito la mia professionalità. Non ho finito, sono un discontinuo senza sensi di colpa. Mi reputo uno innamorato dei miei vizi e imperfezioni che coccolo con estrema maestria. Talmente pigro, da essere assolutamente distratto dal senso della competizione degli altri. In breve: ho ceduto ai miei difetti trasformandoli in godimento”.
Come valuta la cosiddetta rendita immobiliare?
“I patrimoni immobiliari sono diventati quasi un disvalore; con una tendenza a valorizzare i beni immateriali. Per i singoli ritengo il mattone un buon bene rifugio. Ma sconsiglio di farlo alle imprese; non possono immobilizzare risorse negli immobili quando andrebbero messi in azienda e nei beni immobili”.
Redazione Online
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