Veniero Accreman (foto) ha 90 anni. Li porta benissimo, almeno 20-30 anni di meno. Mente agile e ferma come quella di un ragazzino, ha attraversato il cosiddetto secolo breve (immagine coniata dallo storico anglo-tedesco Eric Hobsbawm) da protagonista: riconosciuto principe del foro di Rimini (penalista da primo della classe), parlamentare Pci (corrente di Giorgio Amendola) per una dozzina d’anni (dal ’63 al ’76, con una parentesi dal ’68 al ’70), sindaco di Rimini (dal ’57 al ’58).
Tra pochi mesi, allo scoccare del novantesimo, ha deciso di non appendere i codici al fatidico chiodo. Cinque anni fa, per gli 85, decide di chiudere “bottega”. Dopo aver bruciato l’archivio, opta di riprendere a “lavorare”, che poi per lui sarebbe un divertimento. Accreman ancora oggi, tutte le mattine si fa una “passeggiata in tribunale”. Una passerella affettuosa in cui colleghi e magistrati gli rendono l’onore riservati ai grandi, con la consapevolezza della precarietà. Ha una scrittura asciutta non meno che elegante. La sua autobiografia che è poi uno spaccato del Riminese, “Le pietre di Rimini”, è dedicata “alla mia città, a mio figlio”.
Da dove arriva il suo cognome?
“Dalla Germania, dalla Baviera. I miei avi arrivarono circa 250 anni fa a Roma, come piccoli banchieri al servizio dello Stato pontificio. Il cognome originario era Ackremann, poi italianizzato. Mio babbo venne a Rimini nel 1923, come capo-stazione. Conobbe mia madre, Letizia Migani, che aveva un negozio di lane di fianco al cinema Fulgor. Negozio che andò distrutto durante la Seconda guerra mondiale, al quarto bombardamento di Rimini”.
Ci potrebbe raccontare qualcosa della sua educazione?
“Mio babbo non era un cristiano praticante; la mamma sì. Fino a 13 anni ho frequentato la parrocchia di Santa Maria Maggiore dei Servi di Maria. E mi piaceva molto. Fino a quell’età ho creduto; poi mi sono allontanato. Ho scoperto la scienza, la democrazia. Senza dubbio sono un ateo. Lo racconto nel mio libro, ‘Le pietre di Rimini’, con tanto di confessione al parroco”.
Nella sua vita chi ha contato di più come esempio?
“Più che dalle persone fisiche, ho avuto molti esempi dalla storia degli uomini. Potrei dire Seneca e Marco Aurelio. Ero innamorato della latinità, e quasi lo parlavo, il latino. Mi piaceva, e piace, Tacito. Ha una prosa stringata, altissima, tacitiana, come si usa dire. Ai fatti che raccontava come storico, aggiungeva sempre il giudizio morale. Vanno bene gli avvenimenti, ma ci vuole anche la chiave di lettura per essere, la storia, maestra di vita”.
Si dice che il destino è il carattere di un uomo, come si descriverebbe?
“Il carattere è stato l’elemento fondamentale che ha indirizzato la mia vita: nei comportamenti e nei giudizi. Avessi avuto un altro carattere forse avrei fatto più carriere nel Pci (Partito comunista italiano). Nei miei confronti di intellettuale stimato c’erano sempre delle riserve, sia a Rimini, sia a Roma. Io discutevo tutto, anche se la disciplina di partito diceva che quello che arrivava dall’alto non si potesse discutere. Ero per indole indisciplinato”.
Lei ha conosciuto direttamente uomini che hanno fatto la storia d’Italia. Che ricordi ha di Palmiro Togliatti, Giorgio Amendola…
“Togliatti era molto riservato, con la compagna Nilde Iotti sempre molto vicino. Era un uomo di carisma e non di potere. Ho stimato la sua politica; non posso non dire che quel deferente rapporto verso l’Unione Sovietica non mi lasciassero dubbi. La sua leadership si è incominciato a metterla in discussione nel ’56, con i fatti d’Ungheria. Io criticavo l’invasione, ma Giorgio Amendola diceva che gli insorti erano gli avversari politici e che noi dovevamo stare con L’Urss. Con l’invasione di Praga sostenere queste posizioni divenne più difficile.
Io ero vicino a Amendola, una persona straordinaria. Per noi della cosiddetta destra comunista era un esempio. Ne ammiravamo il forte carattere, l’intelligenza, la capacità di decidere. Nei rapporti con gli altri era brusco. Parlava rapidamente, grazie all’elasticità mentale. Era privo di sentimentalismi e faceva ironia su se stesso. La moglie nei sui confronti aveva una dedizione assoluta e lui nei suoi. Fuori dal Parlamento erano sempre insieme. Ho avuto il piacere di essere stato loro ospite a cena. Allora, i dirigenti di partito lavoravano nella direzione e venivano in Parlamento solo dopo le 19 per il voto. Ho conosciuto il giovane Napolitano. Mi colpì per intelligenza Mario Alicata, scomparso prima del tempo”.
Che cosa apprezza di più negli uomini?
“Direi, l’amore per la verità. Penso che la razionalità e la scienza siano il raggiungimento dell’uomo. E che per la libertà e la giustizia si possa sacrificare anche la propria vita”.
Nessuno più parla di giustizia sociale, perché?
“La storia ha determinato che il capitalismo ha vinto. L’ideale delle giustizia è in ombra perché la vita l’ha messa in ombra. Il capitalismo nei suoi ideali non ha la giustizia sociale, ma il guadagno. Ed è un fattore di creazione di disuguaglianza, anche se con molta lentezza eleva il tenore di vita generale. E questa è la ragione per la quale ha trionfato”.
Che cosa umilia di più un uomo?
“Il dispregio verso l’umanità è l’offesa più alta”.
Qual è l’attestato che ricorda con più piacere?
“Non ne ho uno in particolare. Ho ricevuto molte soddisfazioni: dalla vita politica dove sono rimasto fino al 1976, da quella professionale. Ricordo con affetto i circa 100 comizi tenuti in piazza; sentivo che riuscivo ad interpretare quello che la platea pensava. Era gratificato dal fatto che potessero pensare: Guarda come dice bene, quello che pensiamo”.
Nella professione la soddisfazione è la tesi accolta dal giudice, che ti fa sentire il valore sociale. Noi avvocati abbiamo una brutta nomea, quella di vendere l’anima al diavolo per il danaro. Non è proprio così; oltre a sentire il valore sociale, contribuisci alla giustizia”.
Perché continua a lavorare?
“Tra sei mesi avrò 90 anni e chiudo. Anche cinque anni fa ebbi l’idea di smettere. Bruciai l’archivio. Poi, però, nel momento in cui dovevo davvero staccare mi sono posto il problema: ‘Che cosa faccio il pomeriggio?’. Mi fece impressione non dovermi più occupare di cose importanti. E ripresi. Oggi, quando vado in tribunale, quasi tutti i giorni, ricevo l’affetto dei colleghi e dei giudici. Lo scorso anno, per gli 89, la Camera penale mi festeggiò con una grande riunione”.
A che cosa non rinuncerebbe mai?
“Alla mia libertà di giudizio”.
Chi è il bravo avvocato?
“Occorrono due doti. Una tecnica e saper rappresentare con le parole gli altri. La capacità di mettere in fila una serie di argomentazioni e rendere l’idea; infine, sorprendere con una metafora. E farlo con facilità e oggettività.
Poi, c’è la capacità di capire perché qualcuno ha commesso il crimine. Io ho deciso di fare il penalista perché ho la predilezione per le cose diverse dal normale. Avevo pensato anche di fare lo psichiatra”.
Perché si delinque?
“Non si riesce a controllare gli istinti. I fondamentali sono due: il possesso e il sesso”.
I suoi hobby?
“Le letture, la musica, la preparazione dei processi, la riflessione. Mi piacciono la pittura e la scultura. E la mia non è una raccolta, come potrebbe sembrare, ma sono i ricordi della vita. Ogni oggetto d’arte reca con sé momenti della vita politica, professionale. Mi fa bene guardarli e rammento tante cose; come si dice: si vive anche di ricordi”.
Come vede il futuro?
“Vedo una serie di difficoltà, ma se ne esce. Certe catastrofi passate non possono più ripetersi”.
Perché in Italia c’è tanta corruzione?
“Quello che avviene in Italia, avviene anche altrove. Diciamo che quando si intersecano gli interessi tra il pubblico ed il privato c’è una forma di corruzione”.
Chi erano gli amici di gioventù?
“L’ex sindaco di Rimini Walter Ceccaroni, Gino Pagliarani, Giorgio Gondoni, Guido Nozzoli”.
La Piazza
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