di ALBERTO BIONDI
«Federico edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il più bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sì ben lo fornì, che non un palazzo, ma una città in forma di palazzo esser pareva.». Sono le parole di Baldassarre Castiglione, che nel suo “Il Cortegiano” descrive, nel primo ventennio del Cinquecento, il Palazzo Ducale di Urbino. Un luogo straordinario, un pezzo di Rinascimento a due passi da casa, ma anche la location perfetta per dare il via alla due giorni di conferenze sul giornalismo culturale “Dalla terza al web” (vai alla nostra notizia). Ad aprire, metaforicamente, le danze nella Sala del Trono, ci ha pensato un intellettuale che sulle note della cultura volteggia da una vita: Corrado Augias (foto). Smilzo ed elegante, sia nel vestire che nell’eloquio, Augias ha seguito (stanghetta degli occhiali tra le labbra) gli interventi introduttivi degli organizzatori della prima edizione del Festival di Giornalismo Culturale Lella Mazzoli e Giorgio Zanchini, che hanno prima posto l’accento sull’importanza socializzante e sensibilizzatrice dei festival, poi su come mancasse, nel panorama italiano, una manifestazione specificatamente pensata per il giornalismo culturale. Perché questo festival? si chiede Zanchini, e perché al capitale culturale italiano viene dato, a volte, uno spazio così modesto?
L’attesa cresce e gli occhi del pubblico serpeggiano continuamente in direzione di quella testa di capelli bianchi seduta in prima fila. Le telecamere di Sky filmano lunghe panoramiche della Sala, zoommano sugli enormi arazzi alle pareti, inquadrano i giornalisti che fotografano, ascoltano, scrivono, bisbigliano tra loro. Dopo l’intro degli organizzatori, sul palco sale Irene Placci, giovane chitarrista del Conservatorio di Pesaro, che esegue un brano di Carlo Domeniconi dal gusto a tratti mediterraneo a tratti orientale. Le dita della ragazza si fermano, scroscio di applausi, e tutti capiscono che è arrivato il momento dell’ospite speciale.
Augias si alza dalla sua sedia, prende posto dietro un leggio e schiaritosi la voce inizia dicendo: “La cosa non è semplice, perché accanto alla benemerita iniziativa di quest’oggi, e dico benemerita con piena convinzione perché ricordarsi che esista il giornalismo culturale è già di per sé un gesto che merita grandi elogi, la difficoltà è che sia il termine giornalismo sia il termine culturale sono così vaghi che, secondo me, per dare qualche piccola informazione e magari qualche giudizio bisogna cominciare a circoscriverli. Il giornalismo è l’espressione del possibile. Un’espressione del possibile della quale ogni tanto si reclama l’obiettività, ma essendo l’obiettività giornalistica un’utipia, per ragioni varie, la più importante delle quali è che non c’è proporzione possibile tra la quantità delle notizie che ogni giorno investono una redazione (di carta stampata o in rete) e lo spazio o il tempo disponibili, ogni redazione, ogni direzione di testata deve fare una selezione. Come tutte le scelte è una scelta di giudizio, di merito, che corrisponde all’indirizzo, alle inclinazioni, alla corrente politica, alla letteratura del giorno eccetera eccetera. Non solo, ma dopo questo primo filtro se ne aggiunge un altro, che è la gerarchia da dare alle notizie. Perché io posso mettere la tal notizia in prima pagina a sei colonne o dedicarle tre minuti di telegiornale o radiogiornale, oppure relegarla alla colonna di pagina nove, reputandola meno importante. Naturalmente, il fatto che l’obiettività giornalistica sia pressoché impossibile, non va confusa col fatto che esista un giornalismo onesto e uno meno onesto. Perché un conto è selezionare, mettere in gerarchia le notizie sulla base degli ideali, degli interessi di ogni singola testata e un conto è falsificare”.
Augias si è poi concesso una digressione sul governo appena instauratosi e sulla mancanza di attenzione per i diritti civili nel suo programma, sottolineando come sia compito dei giornali mettere in luce le “mancanze” e le omissioni che arrivano soprattutto dal mondo della politica. “Ma restando aderenti al tema, abbiamo parlato del giornalismo ed ora fatemi dire due parole sulla cultura. La quale parola, cultura, è una di quelle parole terribili e anche un po’ antipatiche, vaghe. Come la parola amore, o come la parola paura, anche la parola cultura si presta ad una quantità di interpretazioni. La letteratura, le arti, l’architettura, l’urbanistica, il cibo sono tutte espressioni culturali; ma come, ricollegandoci al discorso del giornalismo, le varie sezioni del giornale (la politica interna, la politica estera, la cronaca, l’economia) sono suggerite dall’attualità, la cultura raramente è suggerita dall’attualità. Il più delle volte gli argomenti culturali che voi leggete sulle pagine dei giornali sono suggerite da una scelta editoriale, un gusto del responsabile di quelle pagine o spazi.”
E allora qual è il compito di chi ne è responsabile? “É quello di non tradire l’anima del suo giornale o dello spazio su cui scrive e al tempo stesso evitando di essere settario. Bisogna parlare anche dei libri che non “piacciono”; non censurare, ma anzi eventualmente mettendo in luce gli aspetti negativi assieme a quelli positivi dell’opera. Senza chiudersi in una parrocchia, che essendo comunque disdicevole lo è di più in campo culturale. Il compito di chi scrive è far capire cosa si agita nel mondo. Ci devono dire con un inchiesta qual è la condizione delle biblioteche, ci devono informare se il libro di carta rischia l’osso del collo rispetto al libro elettronico… Quello mi deve informare se è uscito un grande romanzo, quest’altro mi deve dire cosa devo andare a vedere al cinema. Tutto questo il giornale lo deve dare con la maggiore onestà possibile.”.
Il discorso è poi passato sulla scomparsa della critica letteraria. “La critica non c’è più. O meglio, sta negli spazi accademici: la critica letteraria assieme alla filologia si fa nelle aule dell’università. Una volta si faceva anche sui giornali la critica letteraria, ma oggi avviene così di rado la “stroncatura” che le rare volte in cui la si trova viene quasi il sospetto che chi l’ha scritta l’abbia fatto per vendetta. O per giochi tra i gruppi editoriali. Devo dire un’altra cosa sulle pagine culturali, che sia che si tratti di un giornale sia di uno spazio in rete la loro importanza è direttamente proporzionale al “peso” di chi scrive. Ciò non avviene negli altri tipi di giornalismo, in cui posso anche non far caso alla firma di chi mi da la notizia. In campo culturale, invece, è spesso la firma a spingermi a leggere il pezzo. Faccio due esempi insigni dal Corriere della Sera: quando vedo sulle pagine culturali del quotidiano un articolo di Claudio Magris o di Luciano Canfora io lo leggo, ne sono spinto, non posso fare a meno di leggerlo. Perché so che entrambi mi diranno delle cose che mi servono”.
La lectio verte quindi sul tema più caldo del giorno, la rete: “Ho parlato poco della rete, parlerò poco della rete, perché la rete secondo me, uomo anziano nato con la carta, non credo possa produrre quel tipo di influenza pedagogica in senso alto che hanno avuto tanti giovani della mia età con delle riviste come il Ponte o settimanali come il Mondo. Oggi tutto questo non avviene. Marino Sinibaldi, che elogio per la sua opera a Radio 3 (isola felice in un panorama radiotelevisivo devastato) sostiene che la rete animi il dibattito. Sarei portato a dire entro certi limiti che me ne importa poco, quello che mi imorta di più è che singole coscienze ricevano da un articolo, da un intervento, non il dibattito “quello sì quello no” ma il nutrimento, un’informazione, uno stimolo. Questa per me è la funzione massima, in senso lato, che il giornalismo culturale può avere. Festival come questo o quello di Mantova della Letteratura svolgono una funzione benefica, anche tra i giovani. Ne ho visti molti con gli occhi lucidi mentre ascoltavano Baumann a Mantova, e sono convinto che molti di quelli all’uscita si siano gettati su un suo libro o a mettere in moto delle idee che prima non avevano. La rete ha anche un altro handicap: la rete è molto veloce. La rete è poco “potente”. Allora, se anche alla rete si applica la legge della leva, ciò che si acquista in velocità si perde in potenza e viceversa. La rete è veloce, mentre la carta, da strumento settecentesco, è lenta. Da uomo anziano, il bello del giornalismo cultrale è che sia potente. Quando leggo Magris o Canfora ho un’impressione di informazione “soda”, che mi serve, mi arricchisce. La rete non mi nutre, mi da degli stimoli e secondo me proprio in campo culturale mostra le sue carenze”.
Come ultimo argomento, Augias è passato a parlare del deserto della televisione. “Possibile che per il bicentenario di Verdi non ci sia stata una televisione a parlarne e a dedicargli i giusti spazi? Qui non c’è analisi negativa che basti. Chi per periodi dell’anno vive all’estero può capirmi quando dico che, in Germania e in Francia per esempio, le televisioni possono anche essere più noiose di quelle italiane, ma hanno un contenuto di divulgazione culturale molto più alto. Noi siamo veramente precipitati verso il basso da questo punto di vista, donde l’elogio a Radio3.” In conclusione, Augias ha considerato il suo lavoro e la sua opera come divulgatore: “Io per dodici anni ho condotto su Rai 3, in un ora pazzesca, dalle 12.45 alle 13.15 un piccolo programma di mezz’ora che si chiama le Storie, che sotto questo titolo cammuffato ogni giorno parla di un libro. C’è l’autore, ci sono io, i ragazzi di una scuola, e cosa succede? Che a quell’ora infame noi abbiamo un milione e due, un milione e mezzo di persone che si mettono lì a sentire un autore che parla del suo libro. Ma vi sembra questa una cosa da relegare? Non c’è stato uno che abbia detto “ma quel programma va insolitamente bene” e da Cubitosi, il direttore generale della Rai, il silenzio…
La gente disposta ad ascoltare, aldilà di ogni possibile analisi negativa, c’è, basta osare un po’ di più. E se dovessi fare ora un appello al giornalismo culturale italiano, direi: osate un po’ di più. Grazie.”
© RIPRODUZIONE RISERVATA