da Urbino ALBERTO BIONDI
Tra le tante considerazioni e critiche che possono essere indirizzate al sistema universitario italiano, ce n’è una che da riminese sento particolarmente: il calendario accademico, qualunque sia l’ateneo o la facoltà, non permette di “fare la stagione”, di lavorare nei tre mesi estivi e contemporaneamente dare gli esami delle sessioni di giugno-luglio e di settembre. Qualcuno ci prova lo stesso, i più dotati sopravvivono per selezione darwiniana, ma ben pochi riescono a conciliare gli orari da piantagione dell’industria turistica con le sudate carte. Nella maggior parte dei casi, ci si ritrova con un paio di appelli fuoricorso e un crollo psicofisico. E dire che per ammortizzare le spese universitarie, lavorare serve. Eccome. Retta, affitto, bollette, treno, libri e una birra consolatoria pesano sul portafoglio dello studente (che poi è quasi sempre quello dei genitori sotto mentite spoglie) e lo rendono un organismo parassitario, costretto a tendere la mano nella speranza che mamma e papà abbiano di che riempirla.
Se lo studente è fortunato può quindi passare l’estate preparandosi per gli esami, senza l’angoscia di raggranellare il necessario per continuare la sua carriera; se invece, come è sempre più frequente, in casa è rimasto solo il cuore d’oro, l’universitario è obbligato a scegliere tra la maratona o soluzioni intermedie: part-time, contratti a chiamata, lavoretti una tantum, ripetizioni in nero, babysitteraggio clandestino… Esiste un vero e proprio universo parallelo del mondo del lavoro in cui gli studenti navigano a bordo di sgangherate navicelle spaziali, fatte di Lego e tante illusioni, che finiscono per scontrarsi con l’asteroide Licenziamento quando meno te l’aspetti. Senza contare il pianeta Precariato, meta finale del viaggio di molti anche dopo la laurea. Insomma, un’Odissea nello Spazio che di epico non ha niente e che persino Kubrick avrebbe rinunciato a girare.
La domanda, ora, è la seguente: come si esce da questo buco nero? Qualcuno la soluzione l’ha trovata; e vi stupireste se vi dicessi che questo qualcuno ha l’accento yankee o bavarese? In Germania e negli Stati Uniti, infatti, gli studenti terminano l’anno accademico molto prima di noi, gli esami sono frazionati e diluiti su tutta la durata dei semestri (in modo tale che lo studio risulti costante, paulatim sed firmiter, nessun mattone da schiantare tutto in una volta). É l’evoluzione, il perfezionamento del sistema dei preappelli, con la differenza che a Berlino o a Boston tutto fila liscio come l’olio e il problema della verbalizzazione farlocca, della media frazionata, dell’ “iscriviti lo stesso all’appello, che in teoria così non è legale” non c’è. Ah, i nostri coetanei oltralpe e oltreoceano lavorano, ne hanno il tempo e la facoltà, anche perché lì andare all’università è, quando non un privilegio, di sicuro un investimento a cui bisogna contribuire. C’è un tempo per lo studio e uno per poter mettere da parte le risorse adeguate per affrontarlo. Vi sembra giusto mischiare le due cose?
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