di ALBERTO BIONDI
Siamo un popolo assuefatto alle classifiche impietose, soprattutto quando di mezzo ci sono l’economia, la legalità, il livello culturale. Stupirci è gara dura, scandalizzarci quasi impossibile. Tuttavia pochi giorni fa è calato sull’Italia un colpo di scure che non può lasciare indifferenti, reo il bollettino annuale di Reporter Senza Frontiere che misura l’indice di libertà di stampa nel mondo. Ebbene, secondo i dati del 2014 il nostro Paese figura 73esimo su 180 paesi, precipitando in un solo anno di ventiquattro posizioni dietro a Papua Nuova Guinea, Serbia, Senegal e Moldavia (tra le tante). Peggio di noi nell’area Euro solo la Grecia (91°), che prima del fatidico 2008 campeggiava su un’acropoli sessanta posizioni più in alto; un dato scioccante e incontrovertibile, che dimostra come la prima vittima della crisi sia sempre il pluralismo dell’informazione.
E noi? A cosa dobbiamo un declassamento di tale entità? Reporter Senza Frontiere spiega i motivi per cui la sua equazione matematica, che calcola l’indice di libertà considerando fattori come le violenze contro i giornalisti, la censura, il pluralismo e il sistema legislativo, ci condanna: “Nel 2014 la situazione dei giornalisti è peggiorata drasticamente in Italia, con un notevole incremento degli attacchi alle loro proprietà, soprattutto automobili. Durante i primi dieci mesi del 2014 sono stati riportati 43 casi di aggressione fisica e 7 incendi dolosi a macchine e abitazioni. In aumento anche il tasso di querele per diffamazione ingiustificate, dalle 84 del 2013 alle 129 del periodo in esame. I politici eletti hanno esposto gran parte di queste denunce, fatto che costituisce una forma di censura”.
Scartabellando il documento che riporta i criteri adottati da Reporter Senza Frontiere, leggiamo che azioni come l’omicidio, la detenzione, le violenze fisiche o le minacce incidono con forza nel calcolo dell’equazione, ma anche fattori apparentemente più ‘innocui’ come l’impianto legislativo, la trasparenza e l’auto-censura risultano determinanti. Infatti non è certo un segreto che in Italia manchi chiarezza sui provvedimenti a tutela della categoria, che i media arranchino in un alone di opacità prodotto dalle ingerenze del sistema politico ed economico, e che all’interno delle redazioni (grandi testate in primis, ndr) la “linea” editoriale non venga tanto imposta, quanto passivamente seguita da chiunque voglia rimanere nel giro. Le organizzazioni mafiose sul nostro territorio, segnalano i ricercatori, vengono considerate alla stregua dei fondamentalisti islamici e dei cartelli della droga come quegli “agenti non statali” che pesano sull’indipendenza dei media e ne tarpano le ali. La ‘ndrangheta calabrese è la più efficace in questo senso.
“È la stampa, bellezza” diceva il grande Giorgio Bocca, ma i giornalisti scandinavi avrebbero di che ribattere: Finlandia, Danimarca e Norvegia sono infatti sul podio delle nazioni più virtuose, con la Svezia al 5° posto dietro ai liberali Paesi Bassi. Anche la Germania, con la quale ultimamente il confronto è diventato uno sport nazionale, si erge a modello di libertà di stampa, scalando pure due gradini rispetto all’anno scorso e classificandosi 12°. In Africa è la Namibia ad aprire uno spiraglio confortante, piazzandosi 17° e superando il vicino Sudafrica, mentre nelle Americhe Canada e Jamaica ottengono l’ottavo e nono posto rispettivamente. Benché un po’ meglio di noi, va male anche per gli Stati Uniti: le cinquanta stelline si beccano il 49° posto, alla faccia dei Padri Fondatori, con un calo di tre posizioni dovuto alla persecuzione giudiziaria di James Risen del New York Times e per i 15 giornalisti arrestati arbitrariamente a Ferguson, Missouri, durante le manifestazioni per l’omicidio di Michael Brown.
Dal 2002 la situazione globale ha visto un progressivo degrado, sottolineano da Reporter Senza Frontiere, ma le nazioni maglia nera restano comunque le stesse: Cuba (169°), Somalia (172°), Cina (176°) e per ultima l’Eritrea (180°), il cui dittatore Isaias Afewerki (al potere da 21 anni, ndr) viene considerato un “predatore della libertà di stampa”, un carnefice di giornalisti. Nel giudizio negativo di queste nazioni pesa come un macigno l’oscuramento o la totale assenza di Internet, che oggi spaventa ogni regime. Sono 178, per l’appunto, gli internauti morti o giustiziati nel 2014 per la loro attività di divulgazione in rete. Menzione a parte meritano la Siria (177°), il Paese in cui sono stati uccisi più giornalisti nel 2014, quindici in tutto, per mano degli jihadisti dell’ISIS o delle truppe del presidente Assad, e la Francia, che pur non rientrando nel conteggio di questo bollettino, piange le dodici “matite” massacrate nella redazione del Charlie Hebdo.