di SIMONA CENCI
“Le cause? meglio Corte”: questo è lo slogan adottato dalla Corte Arbitrale delle Romagne per presentare i propri servizi.
A metà dello scorso mese di dicembre gran parte delle imprese della provincia hanno saputo, grazie ad una massiccia operazione di mailing elettronico attivata proprio dalla Corte, che “arbitrato è bello”. Ma in che senso? Poi c’è da chiedersi se il messaggio abbia raggiunto il suo scopo. Le conoscenze in materia non sono diffuse e il problema della giustizia – tempi biblici, procedure che favoriscono le strategie dilatorie, costi impossibili da preventivare – sembra in genere essere vissuto con la rassegnazione di chi pensa di non poter fare nulla per porvi rimedio. La Corte Arbitrale non è di questo avviso, come ci fa capire il suo presidente, Giovanni Scarpa (nella foto di Riccardo Gallini) che abbiamo incontrato proprio per chiedergli di scoprire le carte.
Di che cosa si occupa la Corte? Fin dal giorno della sua costituzione, nel 2000, la Corte si propone istituzionalmente lo scopo di promuovere l’arbitrato quale alternativa alla giustizia ordinaria per la risoluzione delle controversie civili.
“Arbitrato significa cause corte, costi predeterminati, tariffe trasparenti” precisa il presidente Scarpa. “L’istituto non è conosciuto dal grande pubblico perché è sempre stato riservato a pochi, solitamente alle imprese medio-grandi, e raramente ha coinvolto le persone comuni. Questa tendenza è stata nel tempo favorita da determinate scelte politico-legislative che hanno condotto la giustizia verso un modello accentrato, lontano da quello di stampo privatistico che è proprio dell’arbitrato”. L’organismo, che ha sede presso il Tribunale di Rimini, è partecipato da soggetti pubblici e privati (ordini professionali, pubbliche amministrazioni), senza costare nulla, è bene precisarlo, agli uni e agli altri, visto che le cariche amministrative (presidente, CdA, tesoriere) per statuto non sono retribuite e le iniziative sono autofinanziate attraverso le quote di iscrizione negli elenchi di arbitri e consulenti e l’organizzazione di corsi di formazione.
Oggi il Governo Renzi sembra essersi accorto delle enormi potenzialità dello strumento, visto che recentemente è stato convertito il D.L. 132/2014, che, allo scopo di decongestionare i tribunali, disciplina il ricorso a metodi alternativi al procedimento civile, gettando le basi per un’inversione di tendenza anche a favore dell’arbitrato.
Per avere un’idea dell’arretrato relativo ai processi civili si possono considerare i dati riferiti all’anno giudiziario 01/07/2012 – 30/06/2013 che ha visto l’iscrizione di 4.348.902 e la conclusione di 4.554.038 procedimenti, con una mole di 5.257.693 cause pendenti alla data del 30/06/2013 (dati estratti dalla “Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2014” in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015). Le procedure arbitrali presentano indubbi vantaggi: nel quadro del codice di procedura civile (artt. 806 e seguenti) e secondo il regolamento adottato dalla Corte, arrivano a conclusione in sei mesi al massimo (per la precisione, il termine è prorogabile una volta soltanto, e solo per motivi eccezionali). E’ palese la differenza di durata rispetto al procedimento civile. Basti pensare alla durata media del procedimento di primo grado presso il Tribunale ordinario pari a 24,6 mesi, circa 733 giorni, e ai tempi del ricorso in Corte d’appello pari a 38,3 mesi, cioè circa 1.133 giorni (dati ISTAT 2010).
Il risparmio economico è evidente anche solo commisurato ai tempi dei procedimenti e senza aver ancora conosciuto il tariffario della Corte Arbitrale che è in procinto di essere reso pubblico. Sono noti comunque i costi di un procedimento civile attraverso i tre gradi di giudizio se si fa riferimento alle tariffe forensi del Decreto del Ministero della Giustizia n. 55 del 10 marzo 2014, (G.U. n. 77 del 2 aprile 2014) che, per una causa del valore di 20 mila euro, ad esempio, possono essere di 5 mila euro per il primo grado, altri 5- 6 mila per il secondo e 3 mila circa per il ricorso in Cassazione. La possibilità di accorciare in modo così rilevante i tempi dei procedimenti è quindi interessante e lo è ancor più per i soggetti che sistematicamente si trovano impegnati in contenziosi civili (imprese, enti pubblici economici, gestori di pubblici servizi, professionisti, ecc.). Alla fine il giudizio dell’arbitro ha lo stesso valore della sentenza definitiva del giudice e può essere appellato solo se è eccepita la nullità del medesimo. Ma allora, se davvero è tutto rose e fiori, perché non è abituale ricorrere all’arbitrato ogni volta che sia possibile? Perché la Corte, nonostante tutti gli sforzi profusi, gestisce solo poche procedure all’anno? “L’arbitrato si scontra con i suoi stessi limiti: la volontarietà del ricorso all’istituto e la necessità di accordarsi con la controparte per procedere alla scelta del medesimo” aggiunge Scarpa.
Come spesso capita, non esiste un solo motivo e cercare di capire il fenomeno non è semplice. La scarsa conoscenza dell’istituto tra la gente comune spiega solo in parte la ragione per cui l’arbitrato non ha ancora fatto presa nella società e nel sistema economico. In effetti, potrebbero essere gli stessi addetti ai lavori, gli avvocati, a non avere un particolare interesse a tagliare drasticamente, attraverso l’arbitrato, la durata delle controversie che i clienti li hanno incaricati a seguire, anche se il presidente Scarpa non è di questo avviso. Ma anche questo non sembra sufficiente. Esiste forse un problema di credibilità relativamente alle competenze tecniche e al livello di professionalità degli arbitri che alcuni temono possano non essere sufficienti ad emettere un lodo qualitativamente accettabile. Ma proprio per questo il regolamento della Corte prevede che gli arbitri siano scelti tra i professionisti di provata esperienza che la Corte seleziona ed inserisce in appositi elenchi e, in caso di disaccordo tra le parti, che la nomina degli arbitri sia compito del Presidente della Corte Arbitrale delle Romagne o addirittura del Presidente del Tribunale di Rimini, a garanzia della massima imparzialità. E allora?
La spiegazione più convincente risiede forse nella natura umana, e in particolare nella natura litigiosa, forse in modo peculiare, delle genti che abitano il nostro Paese. Il punto è che, come sottolineato dallo stesso Scarpa, diversamente dalla proposizione della causa presso il sistema ordinario della giustizia, per l’avvio di un arbitrato occorre il consenso espresso di entrambe le parti in conflitto, così come per devolvere ad un arbitro una vertenza in corso presso un Tribunale, come consentirebbe il già citato D.L.132/2014. Non occorre particolare perspicacia per intuire che, nel momento in cui si avvia una controversia e ancor più durante il suo svolgimento, sia assai poco probabile che una parte aderisca con entusiasmo a una qualsiasi proposta proveniente dall’altra, non fosse che per il sospetto che, per qualche oscuro meccanismo, questa possa favorire l’avversario. Questa è la ragione per cui la Corte ritiene strategico intervenire quando il clima è disteso e i rapporti personali sono ancora armoniosi, e cioè alla stipulazione del contratto tra le parti. Nel momento in cui si conclude un contratto, specie se destinato ad avere una certa durata nel tempo, come nel caso della costituzione di società, nei contratti di locazione e simili, è lì che si è disposti a valutare lucidamente e con la dovuta serenità i vantaggi dell’arbitrato e a inserire, di conseguenza, nel testo contrattuale specifiche clausole (chiamate compromissorie) che, nel caso di successivo contrasto, impegnano le parti ad affidare ad un arbitro la definizione della vertenza. La Corte Arbitrale delle Romagne ha pubblicato sul proprio sito internet il testo consigliato delle clausole compromissorie, pronte per essere inserite in statuti sociali e contratti: basta un “copia e incolla”.