Carlo Clericetti
di Carlo Clericetti*
La sinistra dispersa e litigiosa ha trovato un nuovo motivo di divisione e di insulti. L’occasione è stata la costituzione di una nuova associazione culturale, promossa da Stefano Fassina con Alfredo D’Attorre e un nutrito gruppo di intellettuali, che ha lo scopo di incidere sul dibattito politico costruendo una cultura per la sinistra dell’attuale momento storico. Ma a scatenale le polemiche è stato soprattutto il nome, che Fassina ha scelto nonostante i dubbi avanzati da alcuni partecipanti alla discussione: “Patria e Costituzione”. Tanto è bastato per attirare l’insulto di moda, peggiore anche di “populismo” e “sovranismo”, ossia quello di “rossobrunismo”, cioè un ibrido tra posizioni di estrema sinistra ed estrema destra.
Se usare il termine “Patria” basta per essere accusati addirittura di filo-nazismo (le “camicie brune”, come si ricorderà, erano appunto i nazisti), bisogna dire che il dibattito politico è scaduto a livelli inferiori a quelli di un Bar Sport. Noti rossobruni, in questo caso, sarebbero per esempio Che Guevara (con il suo “Patria o muerte”), Palmiro Togliatti, Lelio Basso e tantissimi altri che trovano posto nel pantheon della sinistra storica. E persino la rivista dell’associazione dei partigiani (l’Anpi), come ha ricordato Fassina, si chiama “Patria indipendente”.
Sgombrato il campo dagli insulti lanciati non si sa se per ignoranza o malafede, ci si può chiedere perché rispolverare un termine che da molti anni non fa più parte del vocabolario della sinistra. L’intenzione di Fassina e compagni è che i due termini vadano strettamente legati: la “Patria” è quella disegnata dalla nostra Costituzione, i cui principi dovrebbero essere prevalenti rispetto a tutto, anche a quello che viene deciso in sede di Unione europea. Il che ha una logica. E’ ormai assodato che il modello di società prefigurato dai trattati e dall’organizzazione dell’Unione europea è diverso da quello che la nostra Costituzione si propone di realizzare (vedere in proposito, per esempio, i libri di Luciano Barra Caracciolo e di Vladimiro Giacché, nel cui intervento è sintetizzato il problema).
Ancora oggi noi ci riconosciamo in quel modello sociale, con cui si pone il lavoro alla base dell’inserimento nella società, e si aggiunge subito dopo che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il modello che viene disegnato dai trattati e dagli accordi dell’Unione europea, e soprattutto il modo in cui è stato gestito nella realtà e che le riforme proposte allontanerebbero ulteriormente dal nostro, pone come obiettivi prioritari il controllo dell’inflazione, il pareggio di bilancio, il divieto di intervento dello Stato, la tutela della concorrenza. Una delle formule applicative di quel modello prevede non solo che esista una certa quantità di disoccupazione, ma addirittura che sia opportuna.
La differenza sostanziale consiste nel fatto che questo modello si propone di far funzionare al meglio un certo tipo di economia, e la società deve adattarsi al suo funzionamento; il nostro modello prefigura invece un certo tipo di società, e sta poi alla politica individuare quali meccanismi economici siano in grado di realizzarla. Queste impostazioni si riflettono anche sulla struttura istituzionale: nel primo modello sono i tecnici – o meglio, le regole instaurate in base alle prescrizioni di una determinata teoria economica – a stabilire le compatibilità. I politici possono scegliere una linea vagamente progressista o più conservatrice, ma solo all’interno delle compatibilità definite, alle quali “there is no alternative”.
La storia ci dice che invece le alternative ci sono, e i sistemi democratici sono nati appunto per far esercitare ai cittadini la scelta tra di esse. Chi dunque continua a proporre “più Europa” sta di fatto promovendo in modo implicito una riforma costituzionale ben più radicale di quella bocciata dalla maggioranza degli italiani il 4 dicembre del 2016, perché riguarda non solo il modo di funzionamento dello Stato, ma anche i valori fondamentali espressi nella nostra Carta e la stessa logica del funzionamento della democrazia.
Gli europeisti di sinistra – da Yanis Varoufakis a Luciana Castellina – concordano quasi del tutto con questa analisi, ma pensano che si debba combattere per cambiare l’Europa, un obiettivo che Fassina & c. considerano irrealizzabile. Come è noto, per cambiare i trattati serve l’unanimità dei paesi membri: che non si raggiungerà mai, non solo per ragioni ideologiche, dato che il modello europeo è stato disegnato secondo i principi dell’ordoliberismo tedesco, ma anche perché vari paesi – Germania in primis – sono favoriti dall’attuale assetto, e dunque a cambiarlo non ci pensano proprio.
Un’uscita dall’Europa o anche solo dall’euro sarebbe rischiosa (a meno che non fosse concordata: ma anche di questo non si vede la probabilità). Ma se vogliamo salvare il nostro modello sociale bisogna stabilire che ciò che prescrive la nostra Costituzione viene prima delle norme europee. Il significato di “Patria e Costituzione” è dunque questo: non è questione di nazionalismo o sovranismo, ma della scelta di conservare il modello di società che la nostra democrazia ha scelto.
Ciò detto, il concetto di “Patria” non è il più appropriato a rappresentare questa linea. Lo usarono i partigiani, è vero, ma in quella fase serviva qualcosa attorno a cui potessero raccogliersi visioni politiche molto diverse, unite dall’obiettivo della lotta al fascismo e della conquista della democrazia, in un paese occupato militarmente da eserciti stranieri; e non c’era ancora la Costituzione che ha fissato i valori della nostra convivenza civile. E al patriottismo di Togliatti non era certo estranea la necessità di affermare che il suo partito, accusato di prendere ordini dall’Unione sovietica, aveva prima di tutto a cuore il bene del paese. In tutto il periodo successivo il termine è stato usato soprattutto dalla destra, e questo lo ha certamente connotato ed è una cosa che può respingere una parte di potenziali elettori progressisti. Ma non è per questo che lo ritengo sbagliato come identificativo di una iniziativa di sinistra. “Patria”, come “nazione”, rimanda a un’identità che non si basa su una scelta razionale, ma sull’essere nati in un certo posto e sulla presunzione che ciò implichi una determinata cultura distinta dalle altre. Che cosa c’entra questo con una scelta politica di sinistra? Chi è di sinistra si sente più vicino all’italiano Matteo Salvini o al francese Jean-Luc Mélenchon? All’italiano Silvio Berlusconi o alla tedesca Sahra Wagenknecht?
Se l’obiettivo è un determinato tipo di società, l’identità che va costruita è politica, non quella che deriva dalla nascita in un certo luogo: con quest’ultima sì rischia di sconfinare nel nazionalismo “ideologico”, mentre ai fini del progetto politico descritto il nazionalismo è puramente contingente e strumentale, per non farsi travolgere dall’altro modello sociale. Non è una differenza di poco conto. E d’altronde la Costituzione è certo basata su valori, ma è un atto di diritto positivo, non ha nessun aspetto trascendente né ne ha bisogno. Invece quello di “Patria” è un concetto trascendente, al contrario dello “Stato” che è una costruzione politica.
Riassumiamo.
Primo. L’Unione europea è stata costruita non solo con un deficit di democrazia, ma soprattutto in base a un modello sociale diverso da quello prefigurato dalla nostra Costituzione. Le scelte seguite all’introduzione dell’euro e la gestione della crisi iniziata dieci anni fa hanno segnato un’evoluzione verso il peggio, e le riforme di cui si sta discutendo enfatizzerebbero questa evoluzione negativa.
Secondo. Non esistono le condizioni per un cambiamento di rotta, né è prevedibile che possano verificarsi in futuro.
Terzo. In questa situazione, lo Stato nazionale è il solo ambito che renda possibile perseguire democraticamente il nostro modello sociale, quello disegnato dalla Costituzione.
Chi poi obiettasse che il progetto dell’unità europea travalica gli interessi nazionali, è invitato ad esaminare con più attenzione il comportamento degli altri paesi membri, nelle politiche economiche e ancor di più in quelle con l’estero. Se riuscirà a rintracciare un solo barlume di solidarietà a scapito degli interessi nazionali di ognuno sarà stato certo più bravo di noi. Questo non significa che dobbiamo isolarci, né impegnarci in una conflittualità permanente. Ma tra queste ipotesi e l’assistere al progressivo disfacimento del nostro modello sociale ci deve ben essere una via intermedia, e questa via consiste nel pretendere rispetto e la possibilità di seguire la nostra strada, e su queste basi impostare la cooperazione con gli altri paesi, senza dubbio necessaria. Se poi chi si pone in questa prospettiva farà a meno di utilizzare il concetto di “Patria”, avrà evitato molti possibili equivoci.
Resta poi un altro serio problema, e cioè che bisognerebbe avere governi che facciano le cose giuste, cosa che non accade da lunghissimo tempo. Ma la soluzione non è farsi governare dagli altri, come molti personaggi “illuminati” della nostra storia hanno creduto (agendo di conseguenza). “Gli altri” fanno gli interessi di chi li deve eleggere, non i nostri, e se qualcuno avesse avuto bisogno di prove dovrebbe già averne avute più che a sufficienza.
*Già direttore di Affari & Finanza di Repubblica