Tratto da lavoce.info
di Tito Boeri, professore all’Università Bocconi
e Francesco Fasani, professore associato alla School of Economics and Finance presso Queen Mary University of London. E
La regolarizzazione doveva servire principalmente a colpire il caporalato in agricoltura ma è nel lavoro domestico che si è registrato il maggior numero di domande. Il problema è che si continua a gestire l’immigrazione con strumenti emergenziali.
Regolarizzazione per tre soli settori
Il 15 agosto si è chiusa la finestra per fare domanda di regolarizzazione nell’ambito della sanatoria varata dal governo a maggio, con il cosiddetto “decreto Rilancio” (decreto legge 19 maggio 2020, n. 34; articolo 103).
Il provvedimento prevedeva due canali distinti di regolarizzazione, entrambi riservati esclusivamente a tre settori: agricoltura, assistenza alla persona e lavoro domestico. Il primo canale offriva ai datori di lavoro (italiani e stranieri) la possibilità di far emergere un rapporto di lavoro esistente con un immigrato irregolare a condizione che il lavoratore fosse già presente in Italia prima dell’8 marzo 2020 e dietro pagamento di un contributo forfettario di 500 euro. Lo stesso canale poteva essere utilizzato anche per dichiarare la sussistenza di un rapporto di lavoro irregolare con cittadini italiani.
Il secondo canale, invece, riguardava direttamente i lavoratori stranieri con permesso di soggiorno scaduto (e non rinnovato) dal 31 ottobre 2019, prima di quella data impiegati in uno dei tre settori oggetto della sanatoria e presenti sul territorio nazionale l’8 marzo 2020. A questi lavoratori si dava così la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno temporaneo della durata di sei mesi.
Nel presentare l’iniziativa, il governo ha enfatizzato la centralità del settore agricolo nella sanatoria e l’intento di ottenere un duplice risultato: da una parte, evitare il rischio di potenziali carenze di manodopera nei campi per le chiusure delle frontiere determinate dal diffondersi della pandemia e, dall’altra, porre un freno allo sfruttamento dei braccianti stranieri da parte di caporali e imprenditori agricoli senza scrupoli.
Un successo o un flop?
Alla luce dei numeri sulle domande pervenute, la sanatoria non sembra aver avuto un impatto rilevante sul lavoro agricolo: non ha contribuito a evitare che “la frutta marcisca nei campi”, né è riuscita davvero a “battere il caporalato” (come sostenevano esponenti del governo all’apertura della regolarizzazione). Ma non è stata nemmeno un flop totale. I numeri diffusi dal ministero dell’Interno non sono piccoli: si tratta di oltre 207 mila domande inoltrate rispetto a una presenza complessiva di immigrati irregolari che, nel 2019, la Fondazione Ismu stimava in 560 mila unità (vedi figura 1). Il numero di domande, tra l’altro, si è avvicinato moltissimo alla stima “del tutto ipotetica” di 220 mila richieste contenuta nella Relazione tecnica del decreto Rilancio.
Ciò che colpisce, però, è la composizione per tipo di lavoro delle domande: ben 177 mila su 207 mila, ovvero l’85 per cento del totale, sono state presentate da datori di lavoro che intendono regolarizzare lavoratori domestici o addetti alla cura della persona. Soltanto 30 mila domande sono riferite al settore agricolo, un sesto del numero di lavoratori stagionali richiesti dalle associazioni di categoria (che avevano parlato di 200 mila “braccianti mancanti”) e circa il 10 per cento dei lavoratori immigrati attualmente impiegati nel settore. Le grandi città (Milano, Napoli e Roma) guidano la classifica delle domande di regolarizzazione di lavoratori domestici, mentre le province di Caserta, Ragusa e Latina dominano quella dei lavoratori agricoli. I datori di lavoro sono cittadini italiani nel 77 per cento dei casi di rapporti di lavoro domestico e nel 91 per cento dei casi in ambito agricolo.
Questi numeri sollevano alcuni interrogativi. Primo, viene naturale chiedersi quale volume di domande sarebbe stato raggiunto se si fosse aperta la possibilità di regolarizzarsi a lavoratori occupati in tutti i settori economici – come richiesto da molte parti anche per esigenze sanitarie e di ordine pubblico.
Secondo, ci vogliono altri strumenti per affrontare seriamente il tema del caporalato e delle condizioni dei braccianti nei nostri campi, non una sanatoria. Tanto meno, una regolarizzazione in cui sono i datori di lavoro a fare domanda e (teoricamente) a sostenere i costi del processo. Che incentivi hanno a regolarizzare i propri lavoratori? Un passo importante sarebbe stato invece obbligare i datori di lavoro a utilizzare comunicazioni contributive mensili ai fini della copertura assicurativa come tutte le altre imprese, ma il governo gialloverde e poi quello giallorosso si sono opposti a questa misura volta a ripristinare legalità nel settore. L’adozione di dichiarazioni mensili avrebbe consentito le verifiche ispettive in un settore nel quale il lavoro fittizio dichiarato in eccesso per fruire di prestazioni sociali come indennità di disoccupazione e maternità e quello non dichiarato per non pagare i contributi sono ancora una pratica diffusissima. Con le procedure attuali il datore può dichiarare il lavoratore entro 120 giorni dall’inizio della sua prestazione, mentre il lavoratore matura il sussidio di disoccupazione entro 101 giorni. Ne consegue che nessuno potrà mai controllare quel rapporto di lavoro.
Terzo, si conferma l’esistenza di una forte domanda da parte delle famiglie italiane di un canale di assunzione legale dei lavoratori domestici. Qui gli incentivi di lavoratori e datori di lavoro a far emergere condizioni di irregolarità sono molto più allineati che in altri settori, dunque, almeno in questo ambito, dovrebbero esserci meno ostacoli di natura pratica e politica alla creazione di meccanismi permanenti di incontro legale di offerta e domanda di lavoro.
Sarà l’ultima sanatoria?
Non si tratta certo della prima sanatoria in Italia. E non sarà neanche l’ultima perché continuiamo a gestire l’immigrazione con strumenti emergenziali. Ci sono state otto sanatorie negli ultimi trent’anni, varate da governi di ogni orientamento politico, compresi quelli cosiddetti “tecnici”. Le precedenti furono concesse nel 1986 (con 105 mila regolarizzati), 1990 (218 mila), 1995 (244 mila), 1998 (217 mila), 2002 (637 mila), 2009 (295 mila) e nel 2012 (135 mila). Un totale di oltre 1,8 milioni di immigrati regolarizzati, a cui si aggiungono le 200 mila attuali domande e gli immigrati che hanno ottenuto il permesso di soggiorno attraverso i decreti flussi (che vengono principalmente utilizzati per regolarizzare rapporti di lavoro già in essere più che per permettere nuovi ingressi di lavoratori dall’estero).
Molta meno attività legislativa si è vista invece sul fronte della definizione e del miglioramento della politica migratoria italiana. L’ultima riforma è stata varata nel 1998 con la legge Turco-Napolitano, parzialmente modificata nel 2002 con la cosiddetta Bossi-Fini, che ancora sostanzialmente definisce la disciplina dell’immigrazione in Italia. La frequenza delle sanatorie rivela la nostra incapacità di creare canali stabili e realistici di accesso legale al nostro mercato del lavoro da parte dei cittadini immigrati. Questo significa che gli immigrati arrivano lo stesso, ma rimangono ai margini della legalità. Un problema reso ancora più serio dall’emergenza Covid-19, che dovrebbe spingerci a riguadagnare il controllo del territorio.