Tratto da la voce.info
di Alessandro Petretto, professore emerito dell’Università degli studi di Firenze
Ai comuni dovrebbe essere garantita la discrezionalità di finanza in deficit che il governo centrale si è già assicurato. L’ammontare complessivo andrebbe fissato come obbiettivo nella legge di bilancio. E andrebbe previsto un fondo straordinario verticale.
Ai comuni 10 miliardi in meno
La crisi da pandemia produrrà vuoti significativi nei bilanci dei comuni italiani, nella situazione attuale chiamati a garantire servizi ancora migliori ai propri cittadini. Tuttavia, per una spesa aumentata si avrà una pesante contrazione dal lato delle entrate. Alcuni cespiti sono infatti direttamente colpiti dall’emergenza sanitaria e dall’interruzione delle attività economiche, a partire dall’imposta di soggiorno e dai ticket di ingresso dei bus turistici, ma caleranno anche l’addizionale all’Irpef, gli oneri di costruzione e non solo. Ugualmente a rischio sono le entrate per proventi in settori quali cultura, trasporto pubblico, parcheggi e sanzioni stradali. E necessariamente subirà un arresto anche la politica di contrasto all’evasione che stava cominciando a portare risorse interessanti in molti comuni.
Il totale delle entrate comunali per imposte e tasse destinate a incorrere in un’interruzione, o persino in un azzeramento, vale circa 10 miliardi. Almeno per i comuni di medie-grandi dimensioni, è dunque possibile prevedere una perdita di gettito, a seconda della quota turistica e di export dell’attività economica, tra il 16 e il 19 per cento delle entrate finali nel corso del 2020. Le cose non andranno certo meglio l’anno prossimo, perché andrà messa in conto una significativa e non breve fase recessiva.
Lo stato centrale non può ritardare di molto un intervento diretto in favore dei bilanci comunali, da aggiungere a quello che ha messo a disposizione qualche centinaio di milioni per le primissime necessità. Per l’immediato, come richiesto in sede Anci (Associazione nazionale comuni italiani), potrebbe concedere di utilizzare gli spazi già disponibili nei bilanci degli enti con maggiore flessibilità, consentendo un più ampio ricorso agli avanzi di amministrazione e riducendo la quota di accantonamento nel fondo crediti difficilmente esigibili (esigibilità resa certamente ancora più difficile proprio dalla nuova situazione di crisi da Covid-19). Ma l’intervento dovrebbe avere un respiro triennale con a base una soluzione come quella che segue.
Dal pareggio a un deficit programmato per le amministrazioni locali
A seguito della crisi, l’amministrazione centrale si è assicurata un’ampia discrezionalità di finanza in deficit oltre i vincoli della disciplina fiscale di Maastricht, che dovrebbe essere in qualche misura estesa anche all’amministrazione locale. A questo scopo si dovrebbe riconoscere, per i prossimi tre anni, anche per i comuni, la possibilità di bilanci in deficit (anziché di pareggio), in termini di competenza potenziata tra spese finali (Titoli 1 e 2) ed entrate finali (Titoli 1, 2, 3, 4 e 5), sia nella fase di previsione che di rendiconto. Si tratterebbe, quindi, di partecipare a una quota di un deficit aggregato delle amministrazioni locali, fissato come obbiettivo nella legge di bilancio dello stato, con dimensioni a scalare nel tempo, da ribaltare opportunamente a livello di singolo comune, con riferimento alla popolazione e a specifiche caratteristiche socio-economiche, se non all’ammanco atteso di risorse proprie o a squilibri di bilancio direttamente collegabili all’effetto pandemico.
Non dissimile, dal punto di vista del debito pubblico aggregato, potrebbe essere il ricorso a un fondo straordinario verticale. Si tratterebbe di un trasferimento a carico del bilancio dello stato triennale, eventualmente in parte vincolato a spese specifiche alla crisi pandemica. In questo caso, il cosiddetto Fondo solidarietà comunale verrebbe finalizzato al ruolo specifico di meccanismo di perequazione fiscale orizzontale basato in prevalenza sui fabbisogni standard e le capacità fiscali, veicolando invece le concessioni di risorse integrativa per i bilanci comunali in crisi da pandemia al fondo straordinario. Un fondo di 3,5 miliardi di euro sembra sia stato l’oggetto, negli ultimi giorni, di un accordo tra ministero dell’Economia e l’Anci.
Un fondo straordinario e l’ampliamento delle capacità di indebitamento
Più efficace da molti punti di vista – la accountability della spesa locale da un lato e il controllo del deficit dall’altro – potrebbe essere l’integrazione tra le due misure, magari in successione temporale: per esempio, il primo anno il fondo e nei due successivi l’indebitamento. Se fosse deciso che il fondo straordinario non copra l’intera cifra del deficit aggregato programmato annualmente, per colmare la differenza dovrebbe essere concesso ai comuni di allargare le possibilità di indebitamento con mutui trentennali (con garanzie di vario tipo, compreso il patrimonio comunale), riconsiderando, con gli strumenti legislativi opportuni, alcuni vincoli di destinazione del debito comunale, in modo che siano ammesse alcune categorie di spesa corrente, oltre alle spese di investimento.
La distinzione tra spese in conto capitale e correnti in termini di contributo al benessere sociale è oggi peraltro anacronistica, essendo difficile attribuire, per esempio, alla costruzione di un edificio pubblico una maggiore efficacia di una spesa corrente in istruzione professionale, in cultura o per ampliare la capacità assistenziale nelle residenze per anziani. Il ricorso ai mutui trentennali per coprire deficit correnti ricorda una pratica perversa invalsa negli anni Ottanta del secolo scorso, fortunatamente bandita da norme che hanno impedito condotte sconsiderate da parte degli amministratori comunali. Ma ora siamo di fronte a qualcosa di diverso e di ben più preoccupante dei fenomeni di azzardo morale dei governanti richiamati nei testi di scienza delle finanze.
Ai comuni 10 miliardi in meno
La crisi da pandemia produrrà vuoti significativi nei bilanci dei comuni italiani, nella situazione attuale chiamati a garantire servizi ancora migliori ai propri cittadini. Tuttavia, per una spesa aumentata si avrà una pesante contrazione dal lato delle entrate. Alcuni cespiti sono infatti direttamente colpiti dall’emergenza sanitaria e dall’interruzione delle attività economiche, a partire dall’imposta di soggiorno e dai ticket di ingresso dei bus turistici, ma caleranno anche l’addizionale all’Irpef, gli oneri di costruzione e non solo. Ugualmente a rischio sono le entrate per proventi in settori quali cultura, trasporto pubblico, parcheggi e sanzioni stradali. E necessariamente subirà un arresto anche la politica di contrasto all’evasione che stava cominciando a portare risorse interessanti in molti comuni.
Il totale delle entrate comunali per imposte e tasse destinate a incorrere in un’interruzione, o persino in un azzeramento, vale circa 10 miliardi. Almeno per i comuni di medie-grandi dimensioni, è dunque possibile prevedere una perdita di gettito, a seconda della quota turistica e di export dell’attività economica, tra il 16 e il 19 per cento delle entrate finali nel corso del 2020. Le cose non andranno certo meglio l’anno prossimo, perché andrà messa in conto una significativa e non breve fase recessiva.
Lo stato centrale non può ritardare di molto un intervento diretto in favore dei bilanci comunali, da aggiungere a quello che ha messo a disposizione qualche centinaio di milioni per le primissime necessità. Per l’immediato, come richiesto in sede Anci (Associazione nazionale comuni italiani), potrebbe concedere di utilizzare gli spazi già disponibili nei bilanci degli enti con maggiore flessibilità, consentendo un più ampio ricorso agli avanzi di amministrazione e riducendo la quota di accantonamento nel fondo crediti difficilmente esigibili (esigibilità resa certamente ancora più difficile proprio dalla nuova situazione di crisi da Covid-19). Ma l’intervento dovrebbe avere un respiro triennale con a base una soluzione come quella che segue.
Dal pareggio a un deficit programmato per le amministrazioni locali
A seguito della crisi, l’amministrazione centrale si è assicurata un’ampia discrezionalità di finanza in deficit oltre i vincoli della disciplina fiscale di Maastricht, che dovrebbe essere in qualche misura estesa anche all’amministrazione locale. A questo scopo si dovrebbe riconoscere, per i prossimi tre anni, anche per i comuni, la possibilità di bilanci in deficit (anziché di pareggio), in termini di competenza potenziata tra spese finali (Titoli 1 e 2) ed entrate finali (Titoli 1, 2, 3, 4 e 5), sia nella fase di previsione che di rendiconto. Si tratterebbe, quindi, di partecipare a una quota di un deficit aggregato delle amministrazioni locali, fissato come obbiettivo nella legge di bilancio dello stato, con dimensioni a scalare nel tempo, da ribaltare opportunamente a livello di singolo comune, con riferimento alla popolazione e a specifiche caratteristiche socio-economiche, se non all’ammanco atteso di risorse proprie o a squilibri di bilancio direttamente collegabili all’effetto pandemico.
Non dissimile, dal punto di vista del debito pubblico aggregato, potrebbe essere il ricorso a un fondo straordinario verticale. Si tratterebbe di un trasferimento a carico del bilancio dello stato triennale, eventualmente in parte vincolato a spese specifiche alla crisi pandemica. In questo caso, il cosiddetto Fondo solidarietà comunale verrebbe finalizzato al ruolo specifico di meccanismo di perequazione fiscale orizzontale basato in prevalenza sui fabbisogni standard e le capacità fiscali, veicolando invece le concessioni di risorse integrativa per i bilanci comunali in crisi da pandemia al fondo straordinario. Un fondo di 3,5 miliardi di euro sembra sia stato l’oggetto, negli ultimi giorni, di un accordo tra ministero dell’Economia e l’Anci.
Un fondo straordinario e l’ampliamento delle capacità di indebitamento
Più efficace da molti punti di vista – la accountability della spesa locale da un lato e il controllo del deficit dall’altro – potrebbe essere l’integrazione tra le due misure, magari in successione temporale: per esempio, il primo anno il fondo e nei due successivi l’indebitamento. Se fosse deciso che il fondo straordinario non copra l’intera cifra del deficit aggregato programmato annualmente, per colmare la differenza dovrebbe essere concesso ai comuni di allargare le possibilità di indebitamento con mutui trentennali (con garanzie di vario tipo, compreso il patrimonio comunale), riconsiderando, con gli strumenti legislativi opportuni, alcuni vincoli di destinazione del debito comunale, in modo che siano ammesse alcune categorie di spesa corrente, oltre alle spese di investimento.
La distinzione tra spese in conto capitale e correnti in termini di contributo al benessere sociale è oggi peraltro anacronistica, essendo difficile attribuire, per esempio, alla costruzione di un edificio pubblico una maggiore efficacia di una spesa corrente in istruzione professionale, in cultura o per ampliare la capacità assistenziale nelle residenze per anziani. Il ricorso ai mutui trentennali per coprire deficit correnti ricorda una pratica perversa invalsa negli anni Ottanta del secolo scorso, fortunatamente bandita da norme che hanno impedito condotte sconsiderate da parte degli amministratori comunali. Ma ora siamo di fronte a qualcosa di diverso e di ben più preoccupante dei fenomeni di azzardo morale dei governanti richiamati nei testi di scienza delle finanze.