Tratto da lavoce.info
di Tommaso Monacelli, professore ordinario di Economia all’Università Bocconi di Milano
Il Recovery Fund viene presentato come una grande vittoria dell’Italia. In realtà, i passi in avanti sono pochi. Perché resta senza soluzione il vero punto del contendere: la condivisione del debito, anche se si agisse attraverso il bilancio europeo.
Un Fondo tutto da costruire
Il tanto discusso progetto di Recovery Fund è come un cerino. Tutti vogliono che resti acceso, immaginando che possa appiccare un grande fuoco. Ma nessuno lo vuole tenere veramente in mano per azionarlo. Così, quel cerino dall’Eurogruppo è passato al Consiglio europeo che a sua volta, il 23 aprile, lo ha girato alla Commissione europea. Quest’ultima avrà il gravoso compito di definire procedure e dettagli.
Il quadro delle cifre oscilla tra il soddisfacente (540 miliardi) e il grandioso, con la presidente Ursula von der Leyen che parla anche di trilioni di euro. La realtà è che i lavori della Commissione cominceranno senza sapere veramente su quali principi costruire. Perché il Consiglio europeo ha solo deciso, genericamente, che il Recovery Fund sarebbe una misura necessaria per fronteggiare il crollo dell’attività economica in Europa, ma evitando di chiarire l’unico vero fondamentale dettaglio: i meccanismi di finanziamento.
In uno slancio a tratti naif, l’Italia insiste che il Fondo debba erogare crediti a fondo perduto. Senza chiarire come questi crediti dovrebbero essere finanziati. Inimmaginabile che possano essere erogati attraverso l’attuale bilancio Ue, che oggi è risibile.
Crediti a fondo perduto tra stati richiederebbero due condizioni: una espansione significativa del bilancio Ue e, soprattutto, trasferimenti massicci dai paesi del Nord Europa a quelli del Sud. Ipotesi politicamente irrealistica, negoziare sulla quale denota solo ingenuità politica.
Chi sarà responsabile del debito?
Se accettiamo che i desideri sui Recovery Fund debbano essere nell’ordine di trilioni di euro, è inevitabile che la Commissione debba emettere titoli di debito comune (chiamiamoli Recovery Bond), sfruttando il bilancio Ue (presumibilmente allargato) come garanzia. Le risorse raccolte (molto più ampie) sarebbero poi prestate ai singoli paesi a tassi di interesse molto contenuti (grazie proprio alla garanzia comune fornita dal bilancio Ue) e secondo le rispettive necessità.
Fin qui credo che l’armonia tra i paesi europei sia grande. Ma è una armonia di facciata. Perché del passo successivo nessuno osa mai parlare, trattandosi del vero vaso di Pandora: di queste emissioni di debito (a lunga scadenza o perpetuo poco importa), i paesi Ue sarebbero responsabili in solido (joint liability) oppure ciascun paese sarebbe responsabile solo della porzione di debito comune a lui assegnata?
Supponiamo che Germania e Italia, attraverso la Commissione, raccogliessero 100 euro sul mercato in Recovery Bond “comuni”, e all’Italia venissero assegnati fondi per 70 euro e alla Germania 30, da ripagare entro un certo periodo di anni. Se alla scadenza l’Italia faticasse a ripagare i 70 euro (più interessi), sarebbe la Germania a doversene far carico? Solo la presenza di responsabilità in solido permetterebbe di definire i Recovery Bond come vero debito comune.
L’alternativa sarebbe quella di istituire una fiscalità terza, cioè tasse europee sovranazionali non vincolate alle decisioni dei singoli paesi membri. Solo una fiscalità sovranazionale permetterebbe di ovviare al problema della responsabilità in solido. Ma il punto di sostanza non cambierebbe. Perché una fiscalità sovranazionale richiederebbe una significativa cessione di sovranità e, di nuovo, massicci trasferimenti tra paesi: gli stati che mediamente crescono di più, meccanicamente, finirebbero per contribuire di più al bilancio comune. Un obiettivo ambizioso, certamente desiderabile. Una vera unione fiscale. Ma anche irrealistico nel breve periodo.
I passi in avanti del Consiglio europeo rispetto al precedente summit sono minimi, quasi nulli. Presentare al paese l’esito dell’Eurogruppo come un grande successo dell’Italia alimenta una retorica miope. Proprio il contrario di quello che il progetto europeo richiede veramente, in particolare in questa circostanza decisiva per il suo futuro.