Tratto da la voce.info
di Guglielmo Barone, professore di Politica economica all’Università di Padova
Torna a circolare l’idea di una presenza forte dello stato nell’economia. Un’esperienza già vissuta in Italia. E le scelte di allora, ad esempio sulla sede degli stabilimenti, spesso non erano le migliori dal punto di vista della logica industriale.
Apprendere dall’esperienza
Poco meno di trenta anni fa si avviava in Italia la lunga stagione delle privatizzazioni, alimentata dalla convinzione che la gestione privata delle imprese portasse guadagni di efficienza difficilmente raggiungibili con la gestione pubblica. Altrettanto importante era l’obiettivo di riduzione del debito pubblico, anche come segnale ai mercati. I risultati sono stati variegati tra imprese e settori ma, nel complesso, positivi. Oggi, il paese sembra voler tornare sui suoi passi. Da più parti si sollecita una presenza forte dello stato nell’economia non come semplice regolatore bensì come attore principale. Si parla di stato innovatore, catalizzatore, gestore diretto di servizi pubblici come i trasporti. La vicenda Autostrade è emblematica, ma non è l’unica.
Di fronte a questa tentazione, vi è il vantaggio di aver già sperimentato un’economia di tipo misto. Da quell’esperienza potrebbero desumersi indicazioni utili per capire se, oggi in Italia, la governance pubblica è davvero adeguata a perseguire l’interesse collettivo.
In prima battuta, gli anni dell’Iri, delle partecipazioni statali, delle banche di interesse nazionale, sono stati gli stessi in cui economia cresceva a tassi molto elevati mentre subito dopo l’avvio della stagione delle privatizzazioni la crescita si è arrestata. Ma la correlazione, di per sé, è poco significativa: era un’economia nella fase iniziale del processo di industrializzazione e, chissà, la crescita sarebbe stata uguale o maggiore senza una presenza pubblica nell’economia così pervasiva. Per esempio, l’analisi degli storici evidenzia come l’obiettivo dell’Iri di tenere insieme massimizzazione del profitto e obiettivi sociali si sia rivelato a lungo andare velleitario e fonte di sprechi.
Politici e stabilimenti industriali
Presentiamo qui una nuova evidenza empirica, che abbiamo ricavato all’interno di un più ampio progetto di ricerca sulle connessioni politiche delle città italiane tra la fine della seconda guerra mondiale e lo scoppio di Tangentopoli, portato avanti con Guido de Blasio ed Elena Gentili. Ci siamo chiesti se la distribuzione territoriale degli insediamenti produttivi riconducibili alla galassia delle partecipazioni statali rispondesse a motivazioni di tipo clientelare. Per fare questo, abbiamo dapprima raccolto i dati sui luoghi di nascita dei politici più importanti di quel periodo (capi di governo e segretari di alcuni partiti: Democrazia cristiana, Partito socialista, Partito socialdemocratico, Partito repubblicano o Partito liberale). Definiamo questi comuni, insieme a quelli ricompresi in una cintura di 10 chilometri, come “connessi”, ovvero legati a un politico influente, mentre gli altri fungono da gruppo di controllo. Abbiamo poi raccolto le informazioni sulla localizzazione degli stabilimenti delle imprese di diretta partecipazione del Tesoro o appartenenti alle galassie Iri o Efim. Si va dall’Eni all’Alfa Romeo, dal Nuovo Pignone alla Sme, da Fincantieri alla Lucchini. La diffusione geografica della mano pubblica nell’economia italiana in quegli anni. È possibile individuare, tra gli altri, il polo dell’alluminio dell’Iglesiente, il comparto del vetro del Chietino, gli stabilimenti Enichem di Ottana e Gela. Abbiamo poi incrociato le due basi dati e adottato una procedura statistica che garantisce che comuni connessi e comuni di controllo presentino le stesse caratteristiche osservabili al 1951 (dimensione, geografia, composizione settoriale, dotazioni di capitale umano e sociale).
Come si sceglieva la sede
La probabilità di trovare uno stabilimento di filiazione pubblica nelle vicinanze di un comune del gruppo di controllo è del 14,9 per cento. Sale sensibilmente, al 28,9 per cento, nei comuni connessi. Anche escludendo le utilities, il divario resta molto ampio: 14,2 contro 26,8 per cento.
L’evidenza descrittiva è corroborata da un’analisi di regressione in cui si tiene conto di diverse caratteristiche osservabili misurate al 1951. Riassumendo: nella storia dell’intervento pubblico italiano nella seconda metà del secolo scorso, aver dato i natali a un politico di spicco faceva quasi raddoppiare la probabilità che il settore pubblico decidesse di insediare in quel territorio uno stabilimento, a parità di altre condizioni.
Il risultato, di per sé, non segnala necessariamente un’inefficienza. Un’ipotesi alternativa è che i politici siano stati lungimiranti e abbiano pertanto scelto le migliori localizzazioni possibili per l’industria di stato, quelle dove – nel linguaggio degli economisti – le cosiddette economie di agglomerazione erano più elevate. Ulteriori nostre analisi suggeriscono però che non è stato così: l’impatto sulla crescita economica locale della presenza di uno stabilimento non era maggiore nei comuni connessi. È verosimile, allora, che le scelte localizzative abbiano sì aumentato il benessere delle constituency di riferimento, ma a scapito di scelte migliori dal punto di vista della logica industriale.
L’evidenza suggerisce la necessità di riflettere su cosa è cambiato rispetto ad allora, affinché la gestione pubblica delle imprese non conduca a scelte motivate esclusivamente da interessi di natura elettorale. Abbiamo ora presìdi istituzionali che possano garantire un’efficiente assegnazione delle risorse? Riusciremo a tenere distinta la produzione della ricchezza dalla sua distribuzione? Ci sembrano domande non eludibili, a maggior ragione alla luce della difficile situazione di finanza pubblica del paese.