Tratto da lavoce.info
di Andrea Ciffolilli, Esperto senior di politiche europee per lo sviluppo regionale e l’innovazione.
Se in Italia esiste un “problema scuola”, la causa non è il Covid, bensì la scelta generalizzata di non investire sul futuro dei giovani. Ora i fondi di “Next Generation EU” e Fse+ sono una grande opportunità, ma anche lo stato deve fare la sua parte.
Scuole riaperte, ma l’abbandono precoce resta un problema
Negli ultimi mesi si è fatto un gran parlare di scuola, di criticità nella gestione della riapertura dopo la lunga pausa forzata dal Covid-19, di infrastrutture fatiscenti, difficoltà organizzative, limiti della didattica a distanza, banchi a rotelle e tanto altro ancora. Vi sono state molte critiche alla gestione dell’emergenza, a volte giuste e costruttive, ma spesso ingenerose e demagogiche, rivolte a chi ha fronteggiato un evento senza precedenti.
Nella foga dello “scarica-barile”, uno sport popolare nel nostro paese, ci si è troppo spesso dimenticati che i problemi dell’istruzione e della formazione sono profondi, hanno radici lontane e nulla si è fatto nel corso degli anni per porvi rimedio. Un recente studio della Commissione europea, sul sostegno dei fondi strutturali all’istruzione e alla formazione, fornisce un quadro della situazione italiana e un’analisi degli investimenti del Fondo sociale europeo (Fse) nel periodo 2014-2020.
Nel periodo considerato, i fondi europei hanno operato in un contesto difficile. Il tasso di abbandono scolastico è diminuito pochissimo in Italia, dal 15 per cento nel 2014 al 14,5 per cento nel 2018, rimanendo tra i più alti d’Europa e ben sopra la media Ue (10,6 per cento) (figura 1). Nel Vecchio Continente in una classe di venti alunni, due abbandonano la scuola precocemente, mentre in Italia, in una classe delle stesse dimensioni, sono tre gli studenti che lasciano gli studi prima dei 16 anni. Un problema che riguarda in primo luogo le regioni del Sud. Dunque, se è vero che la pandemia ha costretto tutti a casa, non dimentichiamo che la fuga dall’istruzione, da noi, è iniziata ben prima del lockdown.
Competenze e lavoro
All’abbandono scolastico precoce si aggiunge una qualità mediocre dell’apprendimento, soprattutto nel Mezzogiorno, dove i test Pisa indicano che nella lettura, in matematica e nelle scienze gli studenti italiani ottengono risultati al di sotto della media Ue, senza mostrare, negli ultimi anni, segni di miglioramento. Se poi rivolgiamo lo sguardo all’istruzione universitaria, il panorama non migliora. Per esempio, il tasso di completamento dell’istruzione terziaria è sì aumentato, dal 23,9 per cento nel 2014 al 27,8 per cento nel 2018, ma risulta sensibilmente più basso della media Ue (40,7 per cento) sufficiente. Infatti, il tasso di partecipazione è rimasto stabile all’8,1 per cento negli ultimi anni, mentre è pari all’11,1 per cento in Europa (figura 3). Vi sono poi forti disparità territoriali e di genere nelle opportunità di lavoro, che si riflettono in un tasso di occupazione dei giovani laureati più basso al Sud e tra le giovani donne.
La questione delle risorse
È un dato di fatto che la spesa pubblica per l’istruzione è più bassa che in altri paesi avanzati ed è persino diminuita: dal 4,5 per cento del Pil nel 2005 al 3,8 per cento nel 2017. Mentre la spesa per la prima infanzia e la scuola primaria è rimasta invariata all’1,5 per cento del Pil nel periodo di programmazione corrente, la spesa per l’istruzione secondaria è scesa dall’1,8 per cento del Pil nel 2014 all’1,7 per cento nel 2017 e la spesa per l’istruzione terziaria è diminuita dallo 0,4 per cento del Pil nel 2014 allo 0,3 per cento nel 2017.
In questo contesto, il Fondo sociale europeo ha destinato 5,5 miliardi nel 2014-2020 (circa 782 milioni l’anno) a interventi contro l’abbandono scolastico (48 per cento del totale), a iniziative per migliorare l’accesso all’educazione terziaria (19 per cento), all’apprendimento permanente (8 per cento) e all’avvicinamento dei sistemi di istruzione al mercato del lavoro (25 per cento) (figura 4). I progetti finanziati contano circa 1 milione e 700mila partecipazioni e, per esempio, sono stati importanti per sostenere l’istruzione fuori dall’orario scolastico ordinario, per sviluppare competenze di base e digitali, per la lotta al disagio o per la formazione professionale. Nonostante i risultati ottenuti, l’efficienza nell’utilizzo delle risorse non è stata pienamente soddisfacente se si considera che l’Italia ha speso il 23 per cento delle risorse programmate a fine 2018, contro una media Ue del 27 per cento. Ciò riflette principalmente i ritardi nell’avvio dei programmi operativi, che anziché partire nel 2014 hanno dovuto attendere l’approvazione della riforma della “Buona scuola”, insieme a una limitata capacità progettuale e amministrativa legata a insufficiente personale competente nella gestione dei progetti.
Ma questo non è il solo problema. Da un punto di vista finanziario le risorse europee sono come gocce nel deserto: il loro ammontare è limitato, visto che rappresentano circa l’1,2 per cento della spesa pubblica annuale per istruzione, e quindi dovrebbero integrare l’azione dello stato, favorendo la sperimentazione di interventi innovativi. Di fatto, invece, vengono utilizzati per tamponare la mancanza cronica di investimenti pubblici. O l’Italia si decide a sostenere seriamente l’istruzione, tagliando spese meno strategiche, oppure non c’è speranza di risolvere i problemi. Non ci si lamenti poi della perdita di competitività, della disoccupazione giovanile e della fuga dei cervelli. Se c’è un “problema scuola”, la causa non è il Covid, ma sono le scelte fatte dalle classi dirigenti da molti anni a questa parte, e da chi le ha votate, che hanno preferito non investire sul futuro dei giovani. I fondi di “Next Generation EU” (circa 200 miliardi complessivi) e Fse+ (15 miliardi) sono una grande opportunità che non va sprecata, ma da soli non bastano. È necessario che lo stato faccia la sua parte.