Carlo Clericetti
di Carlo Clericetti*
L’istituzione più potente dall’Ue è teoricamente a guida collegiale, ma l’esperienza suggerisce che a contare è la linea del presidente. La designata Christine Lagarde non ha la statura tecnica di Draghi e non ha dimostrato di sapersi imporre quando la situazione lo richiede. Si profila così una banca centrale guidata di fatto dal presidente francese
Chi comanda alla Bce? Teoricamente l’istituzione più potente dell’Unione europea è indipendente dai governi ed è guidata da un Comitato esecutivo di sei membri fissi, a cui si aggiungono, nelle riunioni del Consiglio direttivo, i governatori delle banche centrali nazionali. Ma il suo funzionamento degli ultimi vent’anni ha mostrato che la realtà è piuttosto diversa dalla teoria.
Innanzitutto, il Comitato e il Consiglio sicuramente discutono e contribuiscono all’elaborazione della linea di politica monetaria, ma di fatto chi comanda è il presidente. Il segnale più lampante in questo senso non è stato il whatever it takes o le altre mosse di Draghi, ma il demenziale doppio rialzo dei tassi deciso dal suo predecessore Jean-Claude Trichet nel 2011, con l’economia alle corde e il rischio di deflazione che già allora si poteva intuire. Se davvero le decisioni fossero collegiali, quella mossa non sarebbe stata fatta, perché è davvero difficile immaginare che tutti i governatori potessero prendere un tale abbaglio.
Il presidente, dunque, non è un primus inter pares, ma è un vero e proprio dominus. Sempre se si vuole stare ai dati di fatto, la Bce è un organismo monocratico.
Questo non significa che possa fare tutto quello che gli passa per la mente. E qui veniamo all’altro punto, quello dell’indipendenza dai governi. E’ una “indipendenza che va gestita”. Draghi ha preso decisioni, come appunto il whatever it takes e il quantitative easing, che hanno fatto infuriare i suoi colleghi tedeschi. Ma lo ha fatto dopo aver convinto della necessità di quelle mosse la cancelliera Angela Merkel, che gli ha dato la necessaria copertura politica nonostante che il “suo” presidente, Jens Weidman della Bundesbank, facesse fuoco e fiamme. Nella vicenda della Grecia, invece, la Bce ha agito come braccio armato dei paesi leader, per ricondurre alla ragione (la “ragione” del ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble) i tentativi di Tsipras e Varoufakis di evitare le criminali ricette imposte dalla Troika che hanno distrutto l’economia del paese senza risanarne i conti pubblici. E – a proposito – il Fondo monetario guidato da Christine Lagarde non era d’accordo con la strategia che era stata decisa (non perché agisse da colomba, ma perché riteneva che vi fossero errori tecnici, e aveva ragione), ma alla fine si è adeguato alle decisioni europee: in fondo, oltre a dare una terribile lezione ai greci, quel che più contava era salvare le banche francesi e tedesche, e quello si sarebbe ottenuto.
Nella lunga vicenda della Grecia, insomma, il Fondo monetario non ha assunto un ruolo-guida. D’altronde Lagarde, che come si sa non è una economista, è nota soprattutto per le sue doti di tessitrice di rapporti. Le capacità diplomatiche sono certo indispensabili, e proprio il comportamento di Draghi lo ha dimostrato: allineato quando, anche usando un certo cinismo, ha appoggiato decisioni che magari non condivideva; ma capace di far passare la sua linea quando ha ritenuto che fosse assolutamente necessario agire in un certo modo, facendo valere una statura tecnica con pochi eguali al mondo: quella che, appunto, manca a Lagarde.
Insomma, Draghi valuta i rapporti di forza e vi si adegua, ma quando lo ritiene necessario, anche in forza di questo comportamento collaborativo, prende il timone e guida dove vuole lui. Lagarde è una gregaria, come appare evidente da una sua lettera a Sarkozy, segnalata da un attento commentatore di questo blog, trovata in casa sua dalla polizia che indagava sullo scandalo Tapie e pubblicata da Le Monde: “Usami per il tempo che vuoi, ma ho bisogno di te come guida e supporto”… Non c’è ragione di pensare che con Macron, a cui deve la sua designazione, possa avere un atteggiamento diverso. Anzi, il presidente francese, con il suo passato di banchiere d’affari, dal punto di vista tecnico è sicuramente più attrezzato di lei.
Vari commentatori hanno ricordato che, nel corso del suo mandato, il Fondo ha fatto più di un’autocritica e importanti revisioni dei precetti della teoria economica dominante. Varo, ma ciò è stato dovuto all’ex capo economista del Fondo, Olivier Blanchard, a cui va riconosciuta l’onestà intellettuale – e anche il coraggio – di prendere atto dei fatti e cambiare impostazione quando la realtà smentisce la teoria. Sembrerebbe ovvio, invece, purtroppo, è una qualità rara. Questo ammirevole lavoro, però, non sembra che sia riuscito ad imprimere una svolta decisiva ai comportamenti effettivi dell’organizzazione.
Avremo così una Bce, organismo in cui il presidente è decisivo, con un presidente formale, Lagarde, e un presidente-ombra, nella persona del leader francese, i cui consiglieri economici, oltretutto, non si sono certo distinti nel proporre soluzioni ai problemi europei che sarebbero favorevoli per l’Italia, come abbiamo visto nel recente passato da parte di Jean Pisani-Ferry. Questo mentre alla presidenza della Commissione, la seconda poltrona per importanza dell’Unione, si insedia Ursula von der Leyen, ex ministra della Difesa tedesca che si è distinta per la durezza delle sue posizioni. Sarebbe bello individuare almeno un motivo di ottimismo, ma davvero non se ne vedono.
*Già direttore di Affari &Finanza di Repubblica