di Luigi Ronconi, associazione Unione minatori Valmarecchia
Unione minatori Valmarecchia, Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo. Si è celebrato l’agosto nel Parco della Rimembranza “La Grande Rosa”, a località Mercato di Casteldelci.
Quello che proverò a raccontarvi è la storia di un uomo vissuto nel secolo scorso. E’ una vicenda umana, la sua, piena di tristezza e dolore, ancora oggi ogni volta che mi capita di parlarne nelle occasioni in cui l’Associazione UNIONE MINATORI VALMARECCHIA organizza eventi, commemorazioni e presentazioni di libri, mi prende un nodo alla gola. La particolare attenzione che rivolgo oramai da anni allo studio e alla valorizzazione della memoria dell’emigrazione italiana in Belgio è dovuta in larga parte alla mia personale condizione di essere figlio di un”muso nero”, cosi erano chiamati i minatori a causa della polvere nera che ricopriva il loro volto. Ancora prima di nascere ho sperimentato su di me involontariamente e senza rendermene conto l’emigrazione in quanto la mamma che mi portava in grembo attraversò quel confine dall’Italia al Belgio che migliaia di italiani hanno tristemente conosciuto. Antonio Guglielmino Gabrielli, questo il nome del minatore di Fragheto frazione del comune di Casteldelci, morto a Marcinelle l’8 agosto del 1956 aveva preso quel treno carico di speranze, ma anche soprattutto di miseria e disperazione, in un triste giorno d’autunno del 1952 diretto in Belgio per scendere a lavorare in quella che era considerata, per via dei sui antiquati sistemi di sicurezza, tra le più pericolose miniere del bacino carbonifero di Charleroi. Vale la pena a questo punto, prima di addentrarci nella storia più personale di Guglielmino, capire quali sono state le ragioni che hanno indotto decine di migliaia di giovani a prendere questa durissima scelta di emigrare, e soprattutto perché proprio in Belgio. Tutto ebbe inizio con l’affissione sui muri e le bacheche di tutti i comuni italiani di manifesti accattivanti di colore rosa che nulla avevano a che fare con le donne e il femminismo, sembravano piuttosto una chiamata alle armi. La Federazione Carbonifera Belga invitava gli operai italiani ad andare a lavorare con “condizioni particolarmente vantaggiose” nelle miniere belghe. Seguivano tabelle con i salari giornalieri, assegni familiari, premi di natalità, particolari sugli alloggi, istruzioni per le rimesse di denaro in Italia e infine dettagli sul viaggio in treno che durava “solo 18 ore”(in realtà poteva durare anche 3 giorni con vagoni chiusi dall’esterno per evitare la fuga in prossimita’ dei confini con la Svizzera). Il manifesto terminava con la promessa che al compimento delle pratiche la famiglia rimasta in Italia potesse riunirsi in Belgio. I manifesti e la vera e propria campagna di reclutamento furono l’esito del protocollo d’intesa firmato il 23 giugno del 1946 fra l’Italia(allora Primo ministro era Alcide De Gasperi) e Belgio. Il famoso accordo del 1946 non era il primo protocollo siglato fra i due paesi per l’impiego di minatori italiani. Un’analoga intesa era infatti già stata firmata tra i governi dei due Stati nel più lontano 1922. Ma la vera e propria “battaglia del carbone” fu lanciata soltanto all’indomani della seconda guerra mondiale. Il Belgio disponeva, infatti, d’ingenti risorse minerarie, ma non di manodopera sufficiente. L’Italia, al contrario, aveva urgente bisogno di carbone e si trovava in una situazione molto difficile per quanto riguardava il lavoro. La disoccupazione e la miseria rendevano insopportabile la vita alla maggior parte della popolazione, soprattutto dei ceti sociali più deboli. L’industria nazionale era in ginocchio e le campagne, dal Veneto alla Sicilia, versavano in condizioni di estrema povertà e indigenza. Per milioni d’italiani la via dell’emigrazione era la sola prospettiva di riscatto umanamente possibile.il 23 giugno 1946 Italia e Belgio firmarono quindi un accordo che prevedeva la destinazione di cinquantamila operai italiani in buone condizione di salute e un’età fino a 35 anni nelle miniere del Belgio. In cambio, la controparte s’impegnava a vendere all’Italia, mensilmente, un minimo di 2500 tonnellate di carbone ogni 1000 operai inviati. Per quasi tutti era il primo viaggio di una certa importanza, o il primo in assoluto, un viaggio decisamente poco confortevole .Alle stazioni ferroviarie, lunghi convogli scaricavano gli uomini, stanchi, con i loro abiti semplici e con pochi effetti personali al seguito, molti dei quali non fecero mai ritorno al proprio paese. Cominciava lo smistamento verso le differenti miniere, tenendo conto, nei limiti del possibile, delle affinità familiari gli interpreti e i delegati delle miniere regolavano alcune formalità essenziali e qualche problema personale dopo la terza visita sanitaria che seguiva la prima che era stata fatta una nella propria provincia e l’altra a Milano presso il punto di raccolta nei sotterranei della stazione centrale.
Sballottati sui cassoni di vecchi autocarri coperti da teloni gli uomini venivano poi accompagnati nei loro “alloggi”: le famose baracche o addirittura nei famigerati hangar ,gelidi d’inverno e cocenti d’estate, veri e propri campi di concentramento dove pochi anni prima erano stati sistemati i prigionieri di guerra. La mancanza di alloggi previsti dall’accordo italo-belga, impediva alla maggior parte dei minatori il ricongiungimento con la propria famiglia. Trovare un alloggio in affitto era infatti quasi impossibile all’epoca. Spesso, sulle porte delle case da affittare i proprietari scrivevano a chiare lettere ni animaux ni etranger (vietato ad animali e stranieri), restavano quindi gli alloggi a schiera che la miniera aveva a disposizione (les corons) dove anche io da piccolo ho abitato assieme ai genitori e a mio fratello più piccolo .È dunque facile immaginare che l’integrazione dei lavoratori italiani, all’epoca la comunità più numerosa in Belgio, non era in quegli anni facile. Anche nelle miniere, dove peraltro le condizioni di lavoro erano particolarmente dure e insalubri, i rapporti con i minatori belgi non erano facili poiché gli italiani estraevano in media più carbone e questo li metteva in cattiva luce con chi da anni chiedeva condizioni di lavoro migliori e turni meno massacranti . La solidarietà tra paesani rendeva il peso del lavoro e delle condizioni di vita un po’ più sopportabili ai minatori italiani che avevano infatti tendenza a riunirsi tra di loro e a parlare in dialetto, secondo la regione e il paese di provenienza.
I più giovani, nella maggioranza dei casi, non avevano alcuna formazione. Il mestiere di minatore s’imparava quindi facendolo, e imitando i più anziani. All’inesperienza di molti si aggiungevano le scarse misure d’igiene e di sicurezza. Tra il 1946 e il 1963 secondo i dati ufficiali 867 italiani trovarono la morte nelle miniere belghe a causa di crolli, esplosioni e annegamenti. Walter Basso in un recente lavoro “CARNE DA MINIERA” ed. Scandabauchi 2016 ha documentato la morte in incidenti di italiani fino al 1973 a più di 1000, Senza contare il lento flagello delle malattie d’origine professionale, la più pericolosa di queste era la silicosi, causata dalle polveri della miniera che, depositandosi sui polmoni, creava insufficienze respiratorie. Ma torniamo ora a Guglielmino protagonista di questa storia: chi era e perché aveva incontrato la morte nella tragedia mineraria di Marcinelle?
Egli viene al mondo a Palazzaccio di Casteldelci il 21 Luglio 1915 e la sua vita fin dall’inizio non nasce sotto una buona stella, emette i suoi primi vagiti in quella che è poco più di una baracca e la madre, per ragioni che non possiamo comprendere, non lo riconosce e lo abbandona, è una zia a prendersi cura di lui per i primi anni della sua esistenza. Il padre partito per la prima guerra mondiale morirà suicida nel 1918 durante una licenza bevendo petrolio. Da testimonianze che ho potuto raccogliere pare che non avesse retto alla disperazione di trovarsi unico superstite in mezzo ai cadaveri dei propri commilitoni morti durante una tragica operazione di guerra .Da ragazzo Guglielmino svolse diversi lavori, compreso quello di ragazzo di bottega a S. Agata Feltria allora provincia di Pesaro. In quel periodo gli andava bene quando poteva dormire in qualche fienile perché Fragheto era troppo distante dalla bottega per andarci a piedi. Crescendo cominciò a ideare una serie di iniziative, fra le tante quella ritenuta bizzarra e strampalata dai suoi concittadini di allevare cincillà .La Signora Maria Gabrielli, purtroppo recentemente scomparsa, mi ha aiutato a ricostruire la vicenda umana e a tale proposito mi ha raccontato un episodio divertente che ha visto tutta la piccola comunità inseguire e recuperare tutte le piccole bestioline fuggite per le stradine del borgo dalle gabbie nelle quali erano custodite.La Maria ultranovantenne ,ma con una memoria e lucidità invidiabile, ricordava le urla e lo schiamazzo che aveva temporaneamente interrotto il lavoro nei campi e l’impegno con il quale adulti e bambini rincorrevano quei topini, come lei li chiamava.
Quest’uomo era un eterno fanciullo che aveva dovuto crescere troppo in fretta e a cui era stata negata l’infanzia. All’età di 12 anni fu mandato presso il Santuario Francescano della Verna per cercare di addolcire quel carattere ribelle sperando in una vocazione che però non arriverà mai. Scappava continuamente dal monastero per rifugiarsi per giorni e giorni nei fienili o sotto i ponti fino a che non veniva riacciuffato e riaccompagnato al monastero. Alla fine anche la pazienza dei frati dovette arrendersi e ,forse senza troppi rimpianti, fu rispedito dalla zia e la vita del monastero riprese tranquilla e volta al lavoro e alla preghiera. Gli anni passavano inesorabilmente all’insegna del fallimento di ogni tentativo, non ultimo il restauro di una vecchia macina per rimettere in moto un mulino abbandonato ,il fattore comune a tutti questi insuccessi naturalmente era sempre la mancanza di una seppure minima disponibilita’ per finanziare adeguatamente i suoi progetti. Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo impegnò dal 25 Novembre del 1940 fino all’8 settembre del 1943 sul fronte greco e albanese fino a quando di fronte alla dissoluzione delle nostre forze armate fece la scelta di continuare la guerra al fianco degli alleati nel 1°raggruppamento motorizzato del corpo italiano di liberazione dal 14 ottobre del 1943 ed infine dal 30 settembre del 1944 nel 250°reparto trasporti del gruppo di combattimento legnano composto anche da partigiani e volontari che fu il diretto erede del Corpo Italiano di Liberazione e prima grande unità militare entrata in linea accanto alle truppe alleate della VIII armata britannica. Partecipò quindi alla liberazione del proprio paese rinunciando alla possibilità che in molti fecero di scappare e ritornare alle proprie case, fu sicuramente la prima scelta vincente della sua vita. Fu posto in congedo illimitato il 10 settembre del 1945 in forza al distretto militare di Teramo, erano passati 5 anni da quando era partito e rientrò a Fragheto, aveva 30 anni e il suo sogno era quello che gli balenava in mente già da anni: la costruzione di una turbina alimentata dall’acqua del torrente per portare la luce elettrica nel suo paese .Furono i manifesti rosa che, come ho già detto, vide affissi a fornirgli l’idea di come finanziarsi il progetto. Aveva aperto, al rientro dalla guerra, una piccola bottega da fabbro che gli dava di che sopravvivere, ma non certo la possibilità di portare a termine il suo progetto. La decisione fu immediata, tanto era il desiderio di sentirsi utile per la sua comunità, il 21 novembre arrivò in Belgio e 3 giorni dopo scese per La prima volta nell’inferno del Bois du Cazier a Marcinelle dopo avere preso alloggio in rue de la Bruyere. Possiamo solo immaginare quello che gli passò per la mente quel primo giorno di lavoro, lui abituato al sole all’aria buona, al paesaggio meraviglioso dei suoi monti, ritrovarsi nella profondità delle gallerie sporche, polverose e insalubri dove il pericolo di morte era quotidiano. In quell’anno il 1952 moriranno per incidenti 75 italiani nelle miniere belghe nonostante gli scioperi di marzo per la richiesta di maggiore sicurezza sul lavoro. Nel 1954 tutto sembra girare per il verso giusto, il materiale acquistato e trasportato a dorso di mulo in un vecchio casolare di Fragheto comincia a prendere forma e consistenza, ancora un paio di anni e finalmente potrà tornare, cosi’ pensava per sempre a Fragheto per portare a termine il suo progetto. Guglielmino lavorerà quasi ininterrottamente fino a quel tragico giorno di Agosto, si era concesso solo qualche giorno di ferie per tornare al paese utile ad acquistare il materiale necessario per l’impresa ed era tornato in Belgio per riprendere il proprio lavoro il 6 agosto, due giorni prima della catastrofe nonostante Candido e la Maria Gabrielli, gli unici amici con cui si confidava, lo avessero implorato di non tornare in Belgio .L’8 Agosto del 1956, alle 8,10 del mattino, un incendio dovuto a cause e responsabilità mai accertate divorò le gallerie e tutte le vecchie strutture in legno imprigionando a 1035 metri di profondità i minatori del turno del mattino, moriranno 262 minatori di cui 136 italiani. Guglielmino morirà come tutti travolto dal fumo e dai crolli dovuti alle esplosioni. Moltissimi moriranno annegati e i loro corpi non verranno mai riconosciuti. Con lui moriranno altri due ragazzi della Valmarecchia: Antonio Molari di S.Agata Feltria e Giovanni Bianconi di Novafetria che verranno ritrovati molti giorni dopo la catastrofe. Nel racconto di di Lodovico Molari fratello di Antonio Molari e nelle sue memorie conservate presso l’archivio Diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano c’è l’immagine del triste rientro delle salme in Italia e della bara di Guglielmino che nella parte finale del tragitto verso Fragheto sarà portato su di un carro trainato da due buoi vista la impraticabilità della strada. Guglielmino oggi riposa nel cimitero di Fragheto(Casteldelci),grazie alla pietà umana di Gabrielli Giuseppe di Casteldelci che ne ha conservato la memoria e impedito l’oblio e la deposizione dei poveri resti nell’ossario del piccolo cimitero. Grazie a questo gesto di grande umanità e alla sensibilità dell’ex Sindaco di Casteldelci Dott. Luigi Cappella e del Presidente dell’Associazione Unione Minatori Valmarecchia Cav. Bruno Ronconi è stato possibile dare una degna sepoltura a Guglielmino e l’apposizione di una targa nel cimitero di Fragheto inaugurata alla presenza di tante autorità nel 2018 .Già il 7 Agosto dell’anno precedente presso il Parco della Rimembraza “Grande Rosa” a Mercato di Casteldelci era stata posta una targa alla memoria di Guglielmino Gabrielli ,opera di Giorgio Gabrielli. In questo luogo tutti gli anni l’8 Agosto in occasione della GIORNATA NAZIONALE DEL SACRIFICIO DEL LAVORO ITALIANO NEL MONDO davanti alla targa che ricorda Guglielmino viene posta una corona di alloro alla memoria di tutti coloro che hanno perso la vita sul lavoro. L’evento dal 2017 ha ottenuto l’alto Patrocinio della Presidenza della Camera dei Deputati ed è organizzato e programmato dall’UNIONE MINATORI VALMARECCHIA, l’Associazione nata nel 2011 per valorizzare e tenere viva la memoria dei minatori
della nostra vallata.
RICORDARE GUGLIELMINO SIGNIFICA RICONOSCERE UN GRANDE VALORE AL SACRIFICIO DI UN UOMO CHE AVEVA UN GRANDE SOGNO:PORTARE LA LUCE NEL PROPRIO PAESE E QUINDI MIGLIORARE NON SOLO LA PROPRIA VITA MA ANCHE QUELLA DEI PROPRI CONCITTADINI.CREDO CHE SIA UN GRANDE VALORE ETICO E UN DOVERE PER TUTTI RICORDARE QUESTO GRANDE ESEMPIO DI DIGNITA’CHE NONOSTANTE LE AMAREZZE E LE DIFFICOLTA’DELLA VITA,HA PROGETTATO,HA SPERATO E HA SOGNATO UN MONDO MIGLIORE.