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Home Economia

Economia. Contributivo, la riforma della riforma non può più attendere

Redazione di Redazione
1 Giugno 2021
in Economia
Tempo di lettura : 5 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

DI SANDRO GRONCHI, professore di Economia Politica presso l’Università di Siena fino al 1986 e alla Sapienza di Roma successivamente

Il sistema contributivo va riformato prima che vadano a regime gli errori e le lacune da cui è afflitto. Un riordino che riguardi la perequazione, i coefficienti di trasformazione e le regole di pensionamento. Ma il rischio è che anche il nuovo governo si limiti a provvedimenti di basso profilo.

I coefficienti per coorte

Il sistema contributivo italiano fatica a meritare il nome che porta. L’occasione per rifondarlo è offerta dalle simultanee scadenze di Quota 100 e della perequazione “per fasce”. Quest’ultima deve lasciare il posto al meccanismo già illustrato su questo sito qui e qui, mentre le regole di pensionamento devono essere interamente ridisegnate in sintonia con l’altrettanto radicale riforma dei coefficienti di trasformazione già discussa qui. Regole e coefficienti sono uniti da una stretta parentela. Vale la pena riesaminarla con l’aiuto della cartina di tornasole del modello svedese che ha ispirato le altre riforme contributive nord europee (norvegese, polacca, lettone) e che la comunità scientifica internazionale riconosce come canonico.

Al coefficiente di trasformazione è affidato il compito di spalmare il montante contributivo sulla durata attesa della pensione. Il montante è la somma dei contributi aumentati degli interessi maturati in ragione di un “tasso sostenibile” che la riforma Dini volle identificare nella crescita (media quinquennale) del Pil. Alla durata concorrono la speranza di vita del pensionato e quella del coniuge superstite. Semplificando, il coefficiente ne rappresenta il reciproco cosicché, moltiplicandolo per il montante, quest’ultimo è “trasformato” nella rata annua di pensione. Lo scopo è la “corrispettività”, cioè la restituzione dei contributi al lordo degli interessi, che a sua volta prelude alla “sostenibilità”, cioè la tendenziale uguaglianza fra la spesa e il gettito contributivo.

Oltre che dall’età al pensionamento, la durata della pensione dipende da una moltitudine di fattori fra i quali spicca la coorte di appartenenza. Infatti, il modello svedese differenzia i coefficienti, distinti per età, in ragione dell’anno di nascita. In pratica, a ogni coorte sono assegnati coefficienti suoi propri nell’anno solare in cui compie 64 anni, cioè alla vigilia della “fascia pensionabile” che, dopo vari aggiornamenti, è oggi compresa fra 65 e 68. Nel 2020 i coefficienti sono stati assegnati ai nati nel 1956, nel 2019 ai nati nel 1955, e così via. Ne deriva che i quattro coefficienti in vigore nel 2021 provengono da anni diversi.

L’anomalia italiana

L’analisi del protocollo svedese mette in luce le anomalie di quello italiano che prevede l’aggiornamento dei coefficienti (distinti per età) ogni due anni. Nel biennio di validità, i coefficienti stessi sono applicati erga omnes, cioè a prescindere dalla coorte di appartenenza. Quello dei 65 anni, per esempio, in vigore nel biennio 2021‑22 è applicato quest’anno ai nati nel 1956 e l’anno prossimo ai nati nel 1957. Infine, i coefficienti di un biennio sono annunciati nel secondo anno del precedente. Così quelli del 2021‑22 sono stati anunciati nel 2020 e quindi basati sulla tavola di sopravvivenza del 2018 che era l’ultima disponibile in quel momento.

Il protocollo italiano lede l’equità intra‑generazionale perché imputa tavole di sopravvivenza diverse ai membri di una stessa coorte che vanno in pensione in bienni diversi (e quindi a diverse età). Per i “misti”, entrati in assicurazione prima della riforma Dini, la pensione di vecchiaia è accessibile a 67 anni, ma a quella d’anzianità si può accedere fin dai 57 (nel caso di contribuzione ininterrotta e avviata all’indomani dell’obbligo scolastico). Pertanto, una coorte va in pensione alla spicciolata, lungo un arco di vita di 11 anni durante il quale le sono imputate 5/6 tavole diverse. Tale numero crescerà per i “puri”, entrati in assicurazione dopo la riforma Dini, che potranno ritardare il pensionamento fino a 71 anni se sprovvisti dei requisiti “accessori” (economici e contributivi) richiesti dalla riforma Fornero. Le “tavole mutanti” generano disparità di trattamento fra i membri di una coorte, ancor più inaccettabili perché puniscono chi, per scelta o necessità, posticipa il pensionamento. La posticipazione volontaria è scoraggiata non solo dalla punizione ma anche dall’incertezza che ne avvolge la misura.

Il rimedio

La differenziazione dei coefficienti per coorte, indispensabile al corretto funzionamento del sistema contributivo, è incompatibile con una fascia pensionabile così ampia come quella permessa in Italia (57‑71 anni). Infatti, l’assegnazione precoce (a 56 anni) dei coefficienti implicherebbe “tempi d’attesa” crescenti con l’età. Per esempio, se i coefficienti annunciati nel 2020 fossero stati riservati ai nati nel 1964, quello dei 67 anni dovrebbe attendere il 2031 per trovare applicazione a distanza di 13 anni dalla tavola del 2018 su cui è basato, mentre quello dei 71 anni troverebbe applicazione nel 2035 a distanza di 17. L’uso di coefficienti così obsoleti produrrebbe pensioni superiori ai contributi versati e quindi insostenibili. La ragione per cui la fascia svedese è di soli 4 anni (65‑68) è proprio quella di limitare l’invecchiamento dei coefficienti.

Il rimedio è la graduale rinuncia alla pensione d’anzianità (peraltro scomparsa dal panorama internazionale) e l’adozione di una fascia pensionabile di ampiezza contenuta, il cui limite inferiore sia sufficientemente elevato per le ulteriori ragioni di obsolescenza spiegate qui.

Un’opzione possibile è la conferma della fascia da 64 a 67 anni prevista dalla riforma Fornero per i “puri”, da estendere ai “misti” onde evitare disparità viepiù insostenibili man mano che, nel flusso dei nuovi pensionamenti, crescerà la compresenza delle due popolazioni. Sull’esempio svedese, la flessibilità dovrebbe essere pienamente garantita abolendo i requisiti accessori.

Come migliorare la flessibilità senza costi

In Svezia è prevista una sapiente forma d’uscita anticipata senza effetti sull’obsolescenza e quindi sulla sostenibilità del sistema. Consentita dopo aver compiuto 62 anni, l’uscita anticipata dà diritto a “prestiti” mensili sui quali è applicato il medesimo interesse sostenibile che remunera i contributi versati (in Italia, la crescita del Pil). Al compimento dell’età minima di pensione, il debito è rimborsato a valere sul montante contributivo e la pensione stessa è calcolata in base al montante residuo.

La dimensione dei prestiti non può essere scelta liberamente per evitare che rimborsi troppo elevati compromettano l’adeguatezza della pensione. Infatti, è calcolata simulando la liquidazione di una pensione vera e propria. Allo scopo, a 61 anni, le coorti ricevono coefficienti provvisori per le età che precedono quella minima pensionabile (62‑64). Il meccanismo agevola le operazioni di ristrutturazione industriale, ma è anche a disposizione di chiunque voglia utilizzarlo. Finora ha riguardato un terzo dei lavoratori. In Italia, un meccanismo analogo potrebbe sostituire le maldestre forme di pensionamento anticipato (diverse dalla pensione di anzianità). Nell’ancor lunga fase transitoria, dovuta all’esasperante lentezza della riforma contributiva, il prestito commisurato al montante contributivo dovrebbe essere affiancato da una ragionevole correzione attuariale della quota retributiva della pensione.

Conclusioni

In un rapporto redatto dal Pension Group, una commissione di parlamentari svedesi preposta al monitoraggio della riforma contributiva, si legge il seguente monito: “I principi fondamentali non sono difficili (…) ma il sistema nella sua interezza è complesso. La capacità di amministrarlo presuppone una conoscenza profonda del tutto e di come le parti interagiscono” (Ministry of Health and Social Affairs, Report 53/2009). In Italia, non sembra possibile fare affidamento su una classe politica altrettanto studiosa. Al contrario, prevale l’insofferenza verso i paletti con cui l’analisi economica pretenda di condizionare le scelte. Si aggiungano poi la fragilità del quadro politico e l’orientamento di una parte importante della maggioranza a potenziare la pensione d’anzianità abbassando a 41 anni il requisito contributivo.

In tali condizioni, incombe il rischio che anche questo governo finisca per partorire provvedimenti a basso profilo che lasceranno il sistema contributivo nel limbo in cui langue.

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