Tratto da lavoce.info
di Marco Marucci, ricercatore presso INAPP – Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche
Fissare un livello di salario minimo non esaurisce la questione dei lavoratori poveri. Perché il fenomeno non riguarda solo i dipendenti, ma una fascia molto più ampia di persone. E per affrontarlo va costruita una strategia multidimensionale.
Chi sono i lavoratori poveri
Una delle grandi sfide nel prossimo futuro sarà quella di contrastare la crescita del “lavoro povero”, come sottolineato di recente dal ministro Orlando.
Il fenomeno è ancora poco indagato nel nostro paese se non per alcuni studi a livello Ue (si veda per l’Italia Raitano, Jessoula, Pavolini e Natili, 2019) ed è spesso erroneamente assimilato alla questione dei bassi salari (low pay). Una prassi recente, dovuta alla presentazione di due disegni di legge del 2019 relativi all’introduzione di un salario minimo in Italia, ripresa pochi mesi fa con l’esame alla Camera della direttiva europea sul salario minimo Ue (COM(2020) 682 final, di gennaio 2021), individua come livello di salario del lavoratore povero quello dei 9 euro orari e l’alveo di riferimento in quello corrispondente al numero di lavoratori sotto tale soglia. Ma la legittima battaglia per aumentare il benessere dei lavoratori dipendenti non deve essere confusa con gli obiettivi più ampi del contrasto alla crescita dei working poor.
L’obiettivo del salario minimo, una volta quantificato (Lucifora, 2020, Garnero e Giupponi, 2020), è quello di migliorare le condizioni di lavoro, “assicurando ai lavoratori l’accesso alla tutela fornita da contratti collettivi, in modo tale da consentire una vita dignitosa ovunque essi lavorino”, come recita la direttiva Ue.
Più di un lavoratore su sei in Europa è qualificabile come low wage earner (salario inferiore ai due terzi del salario mediano) e anche in Italia il fenomeno inizia ad assumere dimensioni preoccupanti e va contrastato. Tuttavia, mentre la discussione sul salario minimo si è concentrata sulla quantificazione del livello minimo e sui suoi effetti attesi (si veda in proposito audizione Istat del 2019 e quella Inapp del 2021), il concetto del lavoro povero è più ampio e tende a includere tutte le tipologie di lavoratori che, su redditi calcolati annualmente, non riescono a uscire dalla soglia della povertà relativa. Una parte crescente dei lavoratori europei, attualmente il 10 per cento, è al di sotto di tale soglia, anche per scelte passate di liberalizzazione del mercato del lavoro promosse dalla stessa Unione europea (Marucci e De Minicis, 2019).
La definizione di working poor abbraccia quindi tutti i lavoratori, compresi gli autonomi, i parasubordinati, gli atipici e i non-standard workers. L’indagine EU-Silc li inserisce tra gli indicatori con cui Eurostat misura la povertà e l’esclusione sociale (Eurostat 2010, 2016). Il lavoratore è considerato tale se è stato occupato per oltre sei mesi nell’anno di riferimento. Il rischio di povertà è invece definito come famiglia il cui reddito netto è al di sotto del 60 per cento del reddito mediano netto disponibile (soglia di povertà). L’unione delle due condizioni definisce il fenomeno della in-work poverty ed è espresso come percentuale sugli occupati di ogni paese (figura 1).
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Quello su cui gli studi europei si concentrano (Eurofound 2017) per affrontare e contrastare il fenomeno è la costruzione di una strategia multidimensionale ben diversa da quella offerta dalla sola introduzione di un salario minimo: il legame tra condizione di lavoratore povero e tipologia contrattuale è alla base delle analisi più recenti, in cui vengono anche investigate concause legate alla condizione sociale dei nuclei familiari, tra cui la presenza di figli minori, l’educazione ricevuta e altri fattori discriminanti (figura 2).
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Come si evince dalla figura 2, i lavoratori poveri in Italia, ma anche a livello europeo, sono quelli che subiscono maggiormente l’insicurezza dei rapporti di lavoro (contratti a termine e part-time, tra cui molti involontari) e si concentrano in alcune categorie sociali (stranieri, con bassa educazione, in famiglie con uno o più minori). Altre statistiche (Eurofound 2017) confermano alti livelli di povertà lavorativa anche per i lavoratori autonomi, in particolare senza dipendenti (consulenti, professionisti, stagionali ma anche attori e artisti non dipendenti). Sono le medesime caratteristiche delle famiglie a rischio di esclusione sociale, ma con la particolarità di esserlo pur essendo occupate per oltre sei mesi l’anno. Il fenomeno della povertà lavorativa è in continua crescita (figura 1) e ci racconta di un’Italia che non “riesce più ad andare avanti”. Per l’economia è causa – e sintomo – di stagnazione, legata ai bassi consumi che tali nuclei possono riversare nel mercato dei beni e dei servizi, mentre cresce tra loro l’indebitamento privato, spesso legato ad alti rischi di non solvenza (Marucci e De Minicis, 2019).
Una “scatola degli attrezzi” per affrontare il fenomeno
Per affrontare il problema, in attesa che sia costituita la task-force ministeriale che si occupi specificatamente di contrastare questo fenomeno, è necessario che vengano presi in considerazione tutti quei fattori che contribuiscono a creare il rischio di povertà ed esclusione sociale, in particolare per le categorie di lavoratori più fragili. Per farlo non servirà solo definire una soglia di salario minimo, che colpisce il bersaglio, ma non è la soluzione. Affrontare i problemi del precariato e dei servizi pubblici è la strada indicata dall’European Social Policy Network come da Eurofound, che pongono sullo stesso piano le molteplici cause che determinano la povertà nelle famiglie lavoratrici. Alcuni suggerimenti vengono da studi effettuati sempre a livello europeo (figura 3), ma sarà utile e stimolante vedere come tali direzioni verranno applicate al caso italiano.
Ben venga, dunque, una disciplina sui livelli minimi salariali, ma il contrasto al precariato e all’insicurezza lavorativa deve diventare il nuovo obiettivo di lungo periodo. La pandemia ha esacerbato le differenze fra insider (protetti) e outsider del mercato del lavoro moltiplicando le spese sociali a sostegno della seconda categoria che tuttora risulta la più colpita in termini occupazionali e di scarsa protezione sociale. Bisogna anche ricordare che ogni spesa pubblica in questa direzione rappresenta un investimento, perché in grado di stimolare la domanda interna che ha inciso per 7,8 degli 8,9 punti persi di Pil nel 2020: la ripresa non deve essere una jobless recovery, ma neanche una bad job recovery, come è successo dopo l’ultima crisi economica del 2008-2011.
* Le opinioni espresse non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza.