Tratto da lavoce.info
di Guglielmo Fransoni
Una patrimoniale ben concepita sarebbe non solo un innegabile progresso sul piano dell’equità generale, ma anche un grande miglioramento rispetto alle irrazionalità del sistema. Serve un progetto a medio termine per realizzare valori di lungo periodo.
Le disuguaglianze risolte dalla patrimoniale
Tommaso Di Tanno e Rony Hamaui concludono l’articolo Qual è il problema dell’imposta patrimoniale riconoscendo che la patrimoniale è giusta, ma il problema è l’accertamento. Si può fare, allora, un passo in avanti e ponderare l’incremento di giustizia con le difficoltà dell’accertamento.
Prima ancora, però, occorre intendersi. Se si parla seriamente della “patrimoniale” ci si deve riferire a un’imposta: globale (tutte le attività significative), netta (con deduzione delle passività inerenti), sulle persone fisiche (senza tassare gli stabilimenti industriali), sostitutiva delle patrimoniali e parapatrimoniali periodiche (Imu, bollo sui depositi, iscrizione al Pra, canone Rai e così via), fortemente coordinata con le patrimoniali e parapatrimoniali saltuarie (per esempio, forse l’annullamento dell’imposta sulle successioni e il ridimensionamento del registro sui trasferimenti immobiliari).
Se non è questa l’imposta patrimoniale di cui si ragiona, non vale la pena proseguire il discorso e possiamo tranquillamente tenerci tutte quelle che già ci sono, così come sono. Tutti riconosco che sul piano dell’equità generale – quella che riguarda la generica diseguaglianza fra ricchi e poveri – un’imposta patrimoniale costituirebbe un innegabile progresso.
Il punto è che si tratterebbe anche di un grande miglioramento rispetto a diseguaglianze e irrazionalità sul piano fiscale più specifiche e altrettanto (o forse più) pregnanti. Pensiamo alla diseguaglianza fra generazioni. Se una coppia giovane con buone prospettive di reddito compra una villetta al mare con un mutuo, è equo che venga tassata come chi l’ha ricevuta in donazione (quasi sempre esente) o comunque non ha contratto alcun debito per acquistarla?
Pensiamo alla diseguaglianza, dal punto di vista fiscale, fra chi si avvantaggia di un patrimonio ricevuto per eredità e chi può contare solo sul reddito (oggi sempre più aleatorio) da lavoro. Il tutto con un prelievo successorio ormai divenuto l’imposta sulla dabbenaggine. La pagano solo gli sprovveduti grazie all’esclusione delle donazioni indirette e dei patti di famiglia nonché per le generose franchigie di cui si può beneficiare almeno due volte per effetto dell’inapplicabilità del coacervo garantita dalla Cassazione.
Vi è poi la diseguaglianza territoriale fra le imprese: avere uno stabilimento in Italia, anziché all’estero, costa automaticamente di più. Per non parlare poi di quello che potrebbe chiamarsi lo “scandalo delle aree edificabili”. Da un lato, nel periodo che va dall’acquisto al termine dei lavori i real estate developer pagano annualmente poco di più dell’1 per cento del valore venale (ossia più o meno il 30 per cento del rendimento nozionale del capitale investito) con un chiaro svantaggio rispetto ad altre forme di attività d’impresa; dall’altro, la frequenza con la quale moltissimi comuni che “promuovono” al rango di aree edificabili le zone più improbabili del loro territorio al solo fine di aumentare il gettito (e questo riguarda anche le persone fisiche). E l’elenco potrebbe continuare.
Patti chiari tra stato e contribuenti
Più in generale, per ragionare di imposta patrimoniale si devono riconoscere essenzialmente tre cose: 1) le imposte patrimoniali ci sono già con un peso nient’affatto trascurabile; 2) il sistema è caotico; 3) ha solo il pregio dell’illusione fiscale, cioè di quel carattere molto apprezzato dagli economisti forgiati alle dure scuole delle banche centrali per i quali il miglior patto fra stato e cittadini-contribuenti è quello in cui lo stato tiene le carte coperte.
Potrebbero anche avere ragione: ci si guadagna certamente in consenso e forse anche in rispetto delle regole. Tuttavia, è legittimo avere una diversa idea della fiscalità e ritenere che la base del patto sociale fra stato e contribuenti è da individuarsi nella credibilità, nell’equità e nella razionalità del sistema fiscale. Ci sono poi i problemi dell’accertamento e pure su questo punto Di Tanno e Hamaui hanno ragione. Dobbiamo però anche qui chiarire. Ci sarà anche un problema di occultamento della ricchezza. Ma dopo la Beps, la Convenzione multilaterale, la Fatca, il Crs, la Dac6, dovrebbe essere relativamente contenuto.
Più rilevante è il tema, richiamato dagli autori, della determinazione della base imponibile. Ma si tratta di problemi tendenzialmente risolvibili, sia pure con qualche approssimazione. Comunque, in un’ottica di medio termine, l’esperienza operativa consentirà di ridimensionarli. Il che ci porta alla triste considerazione di fondo. Una vera imposta patrimoniale si inserisce in un progetto a medio termine per realizzare valori di lungo periodo (la razionalità, l’eguaglianza, la solidarietà anche intergenerazionale). In questa prospettiva, lo scambio fra giustizia e difficoltà di accertamento segnalato da Di Tanno e Hamaui è chiaramente a vantaggio del primo termine. Ma chi è, ormai, che concepisce la politica (anche fiscale) se non nell’ottica del brevissimo periodo?