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Home Economia

Economia. Lavoro, prima spina per Draghi

Redazione di Redazione
19 Febbraio 2021
in Economia
Tempo di lettura : 3 minuti necessari
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Vignetta di Cecco

Vignetta di Cecco

 

Tratto da lavoce.info

di Alessandra Casarico, professoressa di Scienza delle finanze all’Università Bocconi
e Salvatore Lattanzio, sta svolgendo un dottorato di ricerca in economia all’Università di Cambridge

Il governo Draghi dovrà affrontare subito questioni spinose, come la proroga del blocco dei licenziamenti. Il Covid-19 ha avuto effetti diseguali per i lavoratori, di cui sarà necessario tenere conto per sostenere la transizione del mercato del lavoro verso il dopo-pandemia.

Le conseguenze sociali ed economiche del Covid-19

Il discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato ha più volte sottolineato la drammaticità delle conseguenze non solo sanitarie, ma anche sociali ed economiche della pandemia. Fin dalle prime battute, Draghi ha infatti richiamato l’impatto che il Covid-19 ha avuto e sta avendo sul mercato del lavoro, soprattutto sulle sue componenti meno protette, sulla povertà e sulla disuguaglianza.

Secondo i dati Istat, tra dicembre 2019 e dicembre 2020 si sono persi 444 mila occupati. Tra febbraio e giugno 2020 la flessione è stata più forte e pari a 545 mila unità, con un recupero fino a novembre a cui è seguito un nuovo calo, complice anche la seconda ondata della pandemia (grafico 1). Gli ammortizzatori sociali hanno mitigato gli effetti della crisi, scaricandone parzialmente l’urto sulle ore lavorate, che hanno subito riduzioni consistenti nei mesi di marzo e aprile 2020 rispetto agli stessi mesi del 2019 e che ancora a fine anno risultavano inferiori rispetto al passato. Allo stesso tempo, il blocco dei licenziamenti ha ridotto le cessazioni, ma può avere contemporaneamente rallentato le attivazioni di nuovi contratti, contribuendo a un risultato netto negativo.

Colpiti i gruppi più deboli

La perdita occupazionale non è uniformemente distribuita tra lavoratori, ma si concentra su gruppi che, già fin dall’inizio della pandemia, si poteva prevedere avrebbero subito i contraccolpi maggiori.

Utilizzando i dati delle comunicazioni obbligatorie ed escludendo lavoratori agricoli, domestici e della pubblica amministrazione, nei primi due trimestri del 2020 rispetto alla media del 2017-2019, le attivazioni nette cumulate (calcolate come il totale delle attivazioni al netto delle cessazioni fino alla settimana riportata sull’asse orizzontale, per licenziamento, termine del contratto o dimissioni volontarie) siano calate particolarmente per i lavoratori più giovani (nel gruppo di età tra i 15 e i 34 anni), per le donne, per i lavoratori al Sud e al Centro (benché siano state le zone meno colpite dalla prima ondata pandemica), per i lavoratori con contratti a tempo determinato e di apprendistato, per i lavoratori con livelli di istruzione più bassi e quelli impiegati in attività non essenziali, ossia quelle che hanno dovuto restare chiuse più a lungo.

Se i lavoratori giovani hanno sofferto un forte calo nelle assunzioni nette, per i lavoratori over-55 sono invece aumentate le dimissioni volontarie rispetto alla media degli anni passati, probabilmente in risposta a maggiori esigenze di cura all’interno delle famiglie, oppure come anticipi dell’uscita per pensioni. Anche per le donne, soprattutto nelle prime settimane della pandemia, le dimissioni volontarie sono aumentate di più rispetto a quelle degli uomini in confronto con gli anni precedenti, a segnalare la tensione ulteriore che la pandemia ha creato tra tempo di cura e tempo di lavoro.

Le scelte del governo

Queste dinamiche composite del mercato del lavoro diventano cruciali in vista delle scelte di politica economica che il governo si troverà ad affrontare nelle prossime settimane.

Il blocco dei licenziamenti, inizialmente previsto per un periodo limitato di 60 giorni dal decreto legge del 17 marzo 2020, è stato più volte esteso, fino all’attuale data del 31 marzo 2021. Le parti sociali si dividono tra i sindacati che chiedono un’ulteriore estensione, temendo un picco nei licenziamenti che il blocco ha tenuto a freno, e Confindustria che invece si oppone, se non per le attività bloccate per legge. La cassa integrazione Covid dovrà essere rivalutata. L’esperienza degli altri paesi europei, che non hanno introdotto un divieto di licenziamento così ampio e duraturo come il nostro, suggerisce che la cassa integrazione possa aver rappresentato una protezione sufficiente dell’occupazione.

In presenza di uno shock come quello del Covid che ha colpito tutte le imprese indipendentemente dalla loro produttività, Giulia Giupponi e Camille Landais analizzano come la protezione garantita dalla cassa integrazione possa avere effetti complessivamente positivi sul benessere della collettività, dal momento che i costi della mancata riallocazione dei lavoratori possono essere compensati dal mantenimento di relazioni di lavoro produttive. Uno sblocco graduale, a partire dai settori che hanno subito meno lo shock della pandemia, accompagnato da un mantenimento della cassa integrazione Covid per i settori più in sofferenza potrebbe facilitare la transizione del mercato del lavoro verso il dopo-pandemia. Con una attenzione particolare a coloro che hanno sofferto maggiormente la recessione e per i quali la partita non potrà giocarsi unicamente nel mercato del lavoro.

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