Tratto da lavoce.info
di Piergiuseppe Fortunato, economista della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo
I tumulti di Washington hanno acceso i fari sul funzionamento delle istituzioni quando i livelli di diseguaglianza sono elevati. Per evitare che il fenomeno possa mettere a rischio la democrazia bisogna riconoscere le cause del malcontento.
Il tweet della discordia
Un tweet di Fabrizio Barca a commento dei tumulti di Washington del 6 gennaio ha generato un notevole fermento nel nostro paese. Secondo Barca le diseguaglianze sociali spiegherebbero, almeno in parte, la rabbia esplosa in quei giorni, e più in generale l’emergere del trumpismo negli Stati Uniti. I golpisti di Washington rappresenterebbero dunque la punta di un iceberg e non un fenomeno isolato e ascrivibile agli eccessi del momento e alla mancanza di responsabilità del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Una lettura attenta della letteratura economica e politica in materia ci suggerisce che Barca ha probabilmente ragione in linea generale, ma anche che la questione è parecchio più complessa: per cogliere il nesso tra diseguaglianza e malcontento occorre andare oltre gli indicatori tradizionali e aggregati, come ad esempio l’indice di Gini, e capire quali diseguaglianze contino e perché. Questo potrebbe fungere anche da bussola per facilitare l’individuazione di politiche economiche efficaci.
Un’occhiata alla letteratura
Nel discutere le virtù e la fragilità delle istituzioni democratiche, quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville ci aveva già messo in guardia sulla loro (dis)funzionalità in società caratterizzate da elevate diseguaglianze. Secondo Toqueville, in società disuguali le istituzioni democratiche rischiano di generare un’eccessiva pressione redistributiva, una sorta di “tirannia della maggioranza”, che metterebbe a serio rischio la protezione dei diritti di proprietà. Sulla stessa lunghezza d’onda, la letteratura moderna in materia di politiche fiscali endogene (qui e qui) suggerisce che, in presenza di diseguaglianze elevate, i sistemi democratici possano scegliere livelli di tassazione non ottimali e distorcere dunque gli incentivi all’imprenditorialità individuale.
C’è poi un ulteriore canale, speculare e contrario, evidenziato di recente da Thomas Piketty. L’autore del Capitale nel XXI secolo sottolinea come la diseguaglianza possa influire negativamente sul funzionamento della democrazia anche per i comportamenti esercitati da chi si trova nella coda destra della distribuzione. Livelli estremamente elevati di diseguaglianza, infatti, aumenterebbero il rischio di “cattura” delle istituzioni da parte dei più ricchi, minacciando uno dei pilastri delle moderne democrazie liberali: il principio di rappresentanza politica.
Tuttavia, negli ultimi anni, gli indici convenzionali di diseguaglianza si sono rivelati un indicatore inadeguato a prevedere il malcontento politico e sociale nelle democrazie occidentali. In Francia, ad esempio, dove a differenza che in altri paesi occidentali la diseguaglianza misurata dal coefficiente di Gini è rimasta relativamente stabile negli ultimi anni, le proteste di massa dei “gilets jaunes” hanno monopolizzato il quadro politico per lunghi mesi prima che il Covid-19 si prendesse la scena. Analogamente, in Germania nel 2017 il movimento estremista Alternative für Deutschland è entrato per la prima volta nel parlamento federale raccogliendo il 12,6 per cento dei voti e diventando il principale partito di opposizione nonostante un sistema tributario fra i più progressivi dell’Eurozona, in grado di mantenere livelli di diseguaglianza relativamente bassi.
Alle origini del malcontento
Per capire il crescente malcontento dobbiamo invece guardare ad altri indicatori di diseguaglianza. Alla distribuzione funzionale del reddito, ossia il rapporto fra salari e profitti, ad esempio, che si è decisamente modificata a vantaggio degli ultimi, specie dopo il cambio millennio. Ciò è in parte dovuto alla stagnazione dei salari reali, che sono cresciuti a un ritmo decisamente inferiore rispetto alla produttività del lavoro in tutte le grandi democrazie occidentali, ma si spiega soprattutto con la scomparsa (e la conseguente scarsità) di posti di lavoro stabili e ben retribuiti. I cambiamenti tecnologici occorsi negli ultimi decenni hanno infatti colpito milioni di addetti alla produzione, impiegati e agenti commerciali con livelli medi di educazione (cioè il completamento delle scuole secondarie) e le cui competenze sono divenute innecessarie. La globalizzazione economica e la crescente concorrenza di paesi emergenti come la Cina hanno poi ulteriormente accelerato il processo di deindustrializzazione in innumerevoli centri di produzione dell’occidente democratico. La crisi quasi irreversibile di una città come Detroit ne è l’immagine più evidente.
Non a caso diversi studi rilevano una chiara correlazione fra il deterioramento del tessuto produttivo imputabile alla concorrenza commerciale e il sostegno per movimenti populisti o nazionalisti. I voti raccolti da Trump nelle elezioni presidenziali del 2016, ad esempio, sono fortemente correlati all’entità degli shock commerciali subiti dalle diverse comunità derivanti da una maggiore integrazione economica con la Cina. Inoltre, distretti elettorali con industrie più vulnerabili alle importazioni cinesi hanno anche eletto rappresentanti al Congresso che in media assumono posizioni più polarizzate, sia tra repubblicani che democratici. Risultati simili valgono per l’Europa, dove gli shock economici e commerciali sono stati esplicitamente associati al diffondersi di sentimenti euroscettici. La penetrazione delle importazioni cinesi, in particolare, si è rivelata fortemente associata al sostegno per la Brexit nel referendum del 2016 e all’emergere di partiti nazionalisti nell’Europa continentale.
Queste dinamiche emergono con chiarezza anche guardando a indicatori della distribuzione individuale del reddito sensibili alla parte media della distribuzione più che ai suoi estremi (come, ad esempio, il rapporto fra il decimo e il quinto decile) e che meglio riflettono rispetto al semplice coefficiente di Gini il peggioramento delle condizioni di vita della classe media, la più colpita dai cambiamenti nella struttura e nella geografia della produzione su scala globale.
Allo stesso tempo sono diventate più evidenti anche le conseguenze dei processi di localizzazione, e dunque le diseguaglianze geografiche, che si manifestano sempre più chiaramente nella segmentazione tra centri urbani prosperi e cosmopoliti e comunità rurali, piccole città e aree urbane periferiche in difficoltà. In un mondo ormai sempre più specializzato, e in cui l’accesso alla tecnologia e la conoscenza sono fattori di produzione di primaria importanza, essere vicini a chi è all’avanguardia offre notevoli vantaggi. Solo chi ha la fortuna di vivere in centri urbani dinamici e innovativi infatti gode di opportunità di crescita, che sono invece negate a chi risiede in aree periferiche.
Nel caso specifico degli Stati Uniti è importante sottolineare come ad alimentare le tensioni legate ai cambiamenti occorsi negli ultimi decenni vi siano anche fattori storico-culturali specifici. Oltreoceano, infatti, spesso le diseguaglianze economiche e geografiche coincidono e si sovrappongono a differenze etniche e culturali: la popolazione di colore in particolare tende a vivere in condizioni economiche più disagiate e in aree urbane periferiche. Queste cosiddette diseguaglianze orizzontali (o diseguaglianze tra gruppi culturalmente definiti) possono generare un risentimento profondo e minare le basi della convivenza democratica.
Dall’analisi politica alla politica economica
Riconoscere le cause del malessere diffuso che colpisce le democrazie occidentali, e che ci fa sembrare la profezia di Francis Fukuyama oggi più lontana che mai, rappresenta una condizione necessaria per poterlo risolvere, o quantomeno per limitarne gli effetti sulla stabilità delle nostre istituzioni. Emerge dunque il bisogno di pensare a politiche del lavoro attive per contrastare gli effetti del processo di deindustrializzazione, insieme a nuove regole commerciali a livello globale che possano ribilanciare i rapporti di forza fra paesi e fra paesi e gruppi economici dominanti (la crisi dell’Organizzazione mondiale del commercio rappresenta un’opportunità da non perdere in questo senso) e a misure “place-based” che favoriscono lo sviluppo locale nelle aree più remote.
La discussione è già in essere nella comunità accademica, ma va estesa all’opinione pubblica e alla politica affinché si possa passare dalla fase di analisi all’attuazione effettiva di misure di politica economica che sono oggi più urgenti che mai.