Tratto da lavoce.info
DI MASSIMO GRECO, Saggista e autore di articoli di diritto costituzionale, amministrativo, tributario, dei servizi pubblici e delle autonomie locali, pubblicati in riviste specializzate
A sette anni dalla riforma Delrio, la legge n. 56/2014, le nuove province sono rimaste nel “limbo”. La permanenza di questo ente intermedio nell’articolo 114 della Costituzione ne ha infatti vanificato lo spirito. Con riflessi sulla capacità impositiva.
Dove nasce il problema
La legge Delrio, per espressa indicazione del legislatore, era una disciplina transitoria: avrebbe dovuto fungere da “ponte” tra il previgente sistema di organizzazione degli enti locali e quello che sarebbe conseguito al procedimento di revisione costituzionale, avviato con il disegno di legge costituzionale “Boschi-Renzi”, poi respinto dagli italiani in sede referendaria.
La formulazione dell’attuale articolo 114 della Costituzione, in combinato disposto con gli articoli 1 e 5, che definisce le province come enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni, finisce per rappresentare un ostacolo non facilmente aggirabile. Infatti, se il modello di elezione (diretta, o di secondo grado, dei titolari degli organi di governo) non appare formalmente vincolato dalla Costituzione (Corte costituzionale. sentenza n. 50/2015), è però certo che le province sono configurate come enti “rappresentativi” delle popolazioni locali, e non come enti espressione “associativa” dei comuni.
La natura giuridica
Il mancato “colpo di spugna” costituzionale non è rimasto ininfluente e non solo perché il legislatore è stato costretto a mantenere in vita l’intelaiatura istituzionale delle province, con tutto ciò che ne consegue anche in termini di spesa pubblica, ma anche per i riflessi sulla natura giuridica del nuovo ente intermedio.
La nuova provincia, infatti, avvicinandosi più a un modello di autonomia funzionale e strumentale (al pari della camera di commercio), presenta solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvista della terza, quella politica, di cui sono invece dotati gli enti ad “autonomia” costituzionalmente protetta. Nell’assetto delineato dalla riforma “Delrio”, la vocazione della provincia è diventata essenzialmente, se non esclusivamente, tecnica e funzionale: la disponibilità delle funzioni fa sì che il suo scopo non sia più quello di rappresentare l’identità politica di una comunità territoriale di area vasta, ma quello di offrire un supporto e un coordinamento ai comuni del territorio o un punto di caduta razionale di competenze regionali. È così scivolata fuori dal circuito della “sovranità” consacrato negli articoli 5 e 114 della Costituzione, per rispondere esclusivamente a esigenze organizzative di buon andamento e di più razionale gestione delle funzioni amministrative, anch’esse peraltro sensibilmente ridotte rispetto al passato.
La funzione impositiva
La legge di riforma Delrio non ha tenuto conto che le funzioni amministrative di tipo impositivo non possono essere esercitate da un ente sprovvisto dello status di ente territoriale di governo, cioè di ente “per antica dottrina sede propria di policentrismo autonomistico o, come si dice oggi, di federalismo” (Consiglio di giustizia amministrativa, sent. n. 48/2009). Il soggetto attivo del rapporto tributario (sia in relazione all’an che in relazione al quantum) non può che essere un ente pubblico dotato dello specifico imperium (potestà impositiva); potere che deve essere necessariamente esercitato dagli organi elettivi, secondo le procedure democratiche e non mediante delega a soggetti consortili, o associativi, quali sono i nuovi enti intermedi, politicamente irresponsabili verso gli elettori perché sprovvisti di autonomia politica.
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Ammesso, quindi, che ciò sia possibile in termini di compatibilità con l’articolo 114 della Costituzione, la trasformazione dell’ente territoriale di governo in ente associativo genera, tra gli altri, un problema che neanche la dottrina più attenta ha affrontato adeguatamente. La riflessione s’impone anche alla luce del generalissimo principio vigente in materia tributaria, dotato di dignità costituzionale nel nostro ordinamento ai sensi dell’articolo 23 Cost., e certamente valevole anche con riguardo alla fiscalità locale, secondo il quale l’esercizio della potestà impositiva nei confronti dei cittadini richiede, quale suo indispensabile presupposto, una legge attributiva della relativa potestà pubblicistica (no taxation without representation). Ne deriva che l’esercizio del potere impositivo, espressione diretta della sovranitas, non può essere delegato a enti che non siano investiti, direttamente ex lege, della potestas impositionis e, quindi, soggetti al controllo diretto dei cittadini (soggetti passivi d’imposta).
Il precetto contenuto nell’articolo 23 della Costituzione comporta che le prestazioni patrimoniali imposte dagli enti pubblici debbano essere previamente contemplate in una fonte legislativa di rango primario, essendo necessaria una disposizione che legittimi l’imposizione di prestazioni patrimoniali ai soggetti obbligati. Peraltro, l’articolo 119 attribuisce alle sole province la facoltà di stabilire e applicare tributi. L’articolo stabilisce chiaramente che le “province (…) hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa (…). Le province hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”.
Non sfugge a chi scrive che alle consorelle unioni di comuni il legislatore statale ha affidato la “titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei comuni associati nonché quella patrimoniale”(legge n. 148/2011) e che questa facoltà ha ricevuto il placet della Corte costituzionale (sent. n. 14/2014), ma la fattispecie è decisamente diversa per almeno due ragioni. La prima perché comunque il legislatore si è premurato di trasferire espressamente in capo alle unioni di comuni la titolarità; la seconda perché l’affidamento della potestà impositiva si riferisce alle funzioni già esercitate dai comuni. Nel caso che ci occupa, in disparte l’assenza di una specifica copertura legislativa, la nuova provincia ha solamente ereditato una potestà impositiva già esercitata dalle province precedenti, cioè da enti territoriali diversi dai comuni, che sono stati, nel tempo, espressamente individuati da norme statali.
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Risulta pertanto a rischio di adeguata copertura legislativa tutto il sistema delle entrate provinciali costituito da:
a) tributi propri relativi al trasporto su gomma, costituiti in particolare dall’imposta provinciale di trascrizione (Ipt) e dall’imposta sulle assicurazioni sulla responsabilità civile auto (Rc-auto);
b) compartecipazione provinciale all’Irpef;
c) compartecipazione alla tassa automobilistica;
d) tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti solidi (art. 3, L n. 549/1995);
e) tributo ambientale (art. 19, Dlgs n. 504/1992);
f) canone occupazione di spazi ed aree pubbliche (art. 63, Dlgs n. 446/1997);
g) tassa per l’ammissione ai concorsi (art. 1, Rd n. 2361/1923);
h) diritti di segreteria (art. 40, L n. 604/1962).
Le due principali entrate finanziarie correnti del comparto province derivano dall’economia dei veicoli:
– imposta Rc auto: gettito 2019 = 2.140 milioni di euro;
– imposta provinciale di trascrizione Ipt: gettito 2019 = 1.850 milioni di euro.
I due gettiti garantiscono la copertura al 90 per cento delle risorse necessarie alla spesa corrente. In secondo luogo, va segnalata la Tefa (tributo ambientale), che è direttamente correlata al gettito della tariffa rifiuti comunale (Tari), e che nel 2019 ha garantito poco meno di 400 milioni di euro, come riportano i dati di Unione province italiane.
Delle due l’una. O le nuove province non sono conformi all’attuale dettato costituzionale, con tutto ciò che ne consegue, oppure bisognerà dire agli italiani che in questi sette anni dalla riforma abbiamo scherzato, avendo solamente introdotto il sistema di elezione di secondo grado degli organi di governo in un ente intermedio di cui nulla è cambiato.
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