Tratto da lavoce.info
DI RONY HAMAUI, professore a contratto presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e presidente di Intesa Sanpaolo ForValue
Nuove nuvole si stagliano sull’orizzonte internazionale: quelle della stagflazione. Non sarà probabilmente forte e duratura come negli anni Settanta, ma l’economia mondiale potrebbe rallentare e una moderata inflazione durare più a lungo del previsto.
Un nuovo pericolo all’orizzonte
Mentre il governo Draghi celebra con la Nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza gli eccellenti risultati raggiunti quest’anno (Pil al 6 per cento e debito pubblico in calo al 153,5 per cento) e le rosee previsioni per l’anno prossimo (Pil al 4,5 per cento e debito al 149,4 per cento), nuove nuvole si stagliano sull’orizzonte internazionale: quelle della stagflazione. L’eventualità, oggi sulla bocca di tutti, è stata evocata per la prima volta qualche mese fa da Nouriel Roubini, che aveva già previsto la crisi finanziaria del 2007-2009. Ciò che è più grave è che i mercati finanziari con le repentine cadute dei prezzi delle azioni e dei titoli governativi americani, osservati negli scorsi giorni, cominciano a ritenere probabile un simile scenario. Anche i governatori di numerose banche centrali iniziano a dubitare del fatto che la crescita dei prezzi delle materie prime e degli altri beni abbia breve durata. Vincoli all’offerta e la rottura di molte filiere stanno mettendo in ginocchio le produzioni di molteplici settori così come la riconversione a fonti di energia meno inquinanti in Cina e in Europa aumenta i costi e crea non pochi problemi produttivi. Il cospicuo aumento dei prezzi dell’energia rischia poi di erodere il potere d’acquisto dei consumatori, che durante la crisi aveva conosciuto una forte impennata data dal risparmio forzoso indotto dai lockdown e dai generosi aiuti pubblici decisi dai governi.
Cos’è la stagflazione
Il termine stagflazione è stato coniato a metà degli anni Sessanta dal cancelliere dello scacchiere Iain Macleod per descrivere la situazione di stagnazione economica e alta inflazione che caratterizzava l’economia inglese di allora. La parola, tuttavia, divenne popolare all’inizio degli anni Settanta, quando a seguito della crisi petrolifera i principali paesi occidentali si trovarono in una condizione fino allora inedita di bassa crescita e alta inflazione. Anche se Keynes nella Teoria Generale accenna a una simile congiuntura e Samuelson ne parla esplicitamente in diverse occasioni, la stagflazione non è uno scenario ritenuto standard dalle teorie keynesiane, dove a un aumento della disoccupazione si associa una bassa crescita dei salari e dell’inflazione (si pensi alla curva di Phillips).
Le cause della stagflazione sono generalmente attribuite a due ordini di problemi: 1) vincoli o shock all’offerta, quali un aumento del prezzo dell’energia, che fanno salire l’inflazione e rendono meno profittevoli numerose produzioni; 2) politiche monetarie e fiscali eccessivamente espansive che aumentano la domanda e facilitano la crescita dei prezzi. Oggi, come negli anni Settanta, entrambe queste condizioni sono presenti e giustificano le preoccupazioni di molti economisti.
In un recente articolo Kenneth Rogoff traccia diverse similitudini di natura politico-economica fra l’America di allora e di oggi: la sconfitta militare in Vietnam e quella in Afganistan; la caduta di un presidente che aveva messo a repentaglio le istituzioni, allora Richard Nixon e oggi Donald Trump; il forte disavanzo pubblico; la caduta della produttività e così via.
Purtroppo, curare la stagflazione non è affatto facile, poiché politiche monetarie espansive non fanno altro che esacerbare l’inflazione, mentre politiche restrittive deprimono ulteriormente la crescita. In effetti negli anni Settanta ci vollero quasi dieci anni e la vigorosa cura Volcker del 1979-1983 per debellare il fenomeno, al costo di una pesante, anche se breve, recessione.
Le differenze con gli anni Settanta
La situazione di oggi, tuttavia, sembra per molti aspetti diversa da quella degli anni Settanta. Da un lato, usciamo dalla più pesante deflazione degli ultimi settanta anni e la ripresa appare vigorosa anche se incerta. In molti paesi la capacità occupata rimane ancora sotto i livelli precrisi, mentre è ripartita una nuova fase d’investimenti che è destinata a incrementare l’offerta e aumentare l’efficienza produttiva. Inoltre, le banche centrali godono, almeno nei paesi avanzati, di un’indipendenza e di una credibilità che certamente non avevano negli anni Settanta. Dall’altro, oggi i bilanci pubblici, ma anche privati, presentano livelli di debito da economia di guerra, che necessitano non solo di bassi tassi d’interesse e di una forte crescita ma anche di un po’ d’inflazione. Solo così il debito accumulato risulta sostenibile, soprattutto se rapportato al Pil nominale. Si spiega così l’imbarazzo delle banche centrali nell’abbandonare gli straordinari stimoli che hanno dovuto adottare per contrastare la peggiore epidemia dell’ultimo secolo, ma ciò pone in discussione la loro effettiva indipendenza.
In fin dei conti, è probabile che non assisteremo a una forte e duratura stagflazione, ma il rischio che l’economia mondiale rallenti e che una moderata inflazione duri più a lungo del voluto è certamente da mettere in conto. Di qua la necessità del governo Draghi di accelerare le riforme previste dal Recovery Plan e di augurarsi che la Banca centrale europea non legga il suo mandato alla stabilità dei prezzi in maniera rigida.
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