Tratto da lavoce.info
di Tommaso Bardelli, post dottorato nel Dipartimento di Analisi Sociale e Culturale della New York University
Dopo le proteste dell’estate 2020, negli Stati Uniti si progettano riforme che regolino l’uso della forza da parte della polizia. Ma è la funzione sociale delle forze dell’ordine che va ripensata, per costruire un nuovo modello di sicurezza pubblica.
Il fallimento delle riforme
L’8 giugno 2020, due settimane dopo l’omicidio di George Floyd da parte di un agente di polizia a Minneapolis, la maggioranza democratica al congresso Usa ha presentato un disegno di legge per riformare gli apparati di polizia. Il Justice in Policing Act of 2020, ora in discussione al Senato, contiene misure volte a regolamentare l’uso della forza e ad aumentare la trasparenza dei dipartimenti di polizia. Se approvata, la legge limiterebbe la cosiddetta qualified immunity, rendendo più facile perseguire gli agenti per violazione dei diritti civili nelle corti federali. In aggiunta, la riforma richiederebbe ai dipartimenti di polizia di pubblicare i dati sugli episodi di uso della forza da parte dei propri agenti, permettendo finalmente la creazione di una banca dati nazionale sul tema.
La proposta va ad aggiungersi a una lunga serie di tentativi di riforma delle forze di polizia in America, i più recenti dei quali furono intrapresi durante l’amministrazione di Barack Obama. Comune a tutti gli sforzi riformatori è il fatto di concentrarsi unicamente sulla disciplina del comportamento individuale degli agenti. Per ripristinare un senso di fiducia nell’autorità pubblica, soprattutto nelle comunità più marginalizzate, tali misure sono insufficienti: è il ruolo delle forze dell’ordine che deve essere radicalmente ripensato.
A partire dalla fine degli anni Settanta, forze dell’ordine e apparati di giustizia penale hanno progressivamente accresciuto la propria funzione nel mantenimento dell’ordine e della coesione sociale nelle città americane. Mentre sistemi e reti di welfare erano smantellati e privati di risorse, ai dipartimenti di polizia veniva chiesto di gestire gli effetti della povertà e del disagio sociale.
Le trasformazioni avvenute negli ultimi decenni nella gestione dei problemi legati alla malattia mentale ne sono uno degli esempi più eclatanti: dopo la deistituzionalizzazione degli anni Sessanta e Settanta, molti dei pazienti che in precedenza erano presi in carico dalle strutture ospedaliere andarono ad accrescere le fila dei senzatetto. Quando i fondi federali inizialmente promessi per la creazione di servizi psichiatrici di comunità non si materializzarono, città e stati americani abbracciarono una politica di “tolleranza zero” nei confronti di questi individui, di fatto criminalizzando la loro presenza nello spazio pubblico.
Il sociologo Jonathan Simon ha definito il sistema come “il governo della paura”: forze dell’ordine e istituzioni penali sono chiamate a intervenire non solo in situazioni di chiara rilevanza per la sicurezza pubblica, ma anche per risolvere problemi scartati da altri apparati istituzionali (assistenza, sanità).
Cosa fa (veramente) la polizia?
Alcuni dati recentemente pubblicati ben fotografano la situazione. In contrasto con la figura del poliziotto guerriero resa popolare dal cinema hollywoodiano, i dati sulle chiamate al 911 (la linea di pronto intervento) offrono un’immagine ben più sobria della vita quotidiana degli agenti di polizia. Nella città di New Orleans, ad esempio, solamente il 4 per cento dell’attività professionale dei poliziotti è dedicata al contrasto del crimine violento, mentre il 7,3 per cento del tempo in servizio è speso in interventi legati a conflitti domestici non-violenti. Si stima che, per circa un terzo del loro tempo in servizio, gli agenti siano impegnati a gestire situazioni definite come “non criminali”, da casi di disturbo della quiete pubblica e piccoli conflitti di vicinato, fino alla disciplina scolastica. Tendenze comparabili emergono anche dall’analisi di dati relativi ad altre aree urbane.
A un’istituzione la cui caratteristica specifica è l’uso della forza, e i cui membri sono influenzati da una cultura iper-militaristica, viene così affidata la risposta a problemi che sono spesso di natura medica e sociale.
Interventi locali e responsabilità del governo federale
È a livello locale che emergono alcuni degli esperimenti più interessanti per ripensare quelle che devono essere funzioni e compiti delle forze di polizia nello spazio urbano. Dopo la morte di George Floyd e le proteste dell’estate 2020, diversi comuni e città americane, tra cui San Francisco, si sono impegnate a creare corpi di pronto intervento costituiti da paramedici e assistenti sociali che siano in grado di rispondere ad alcune delle chiamate di emergenza in precedenza gestite dalla polizia.
La gran parte dei progetti si ispira all’esempio della città di Eugene in Oregon, dove dal 1989 il dipartimento di polizia collabora con gli operatori di Cahoots, uno dei programmi della White Bird Clinic, un’agenzia no-profit locale. Il programma conta 40 operatori – infermieri, assistenti sociali e “crisis worker”, con competenze specifiche in pratiche di mediazione e risoluzione pacifica dei conflitti. Nel 2019, i dipartimenti di polizia di Eugene e della vicina città di Springfield hanno affidato a Cahoots la risposta a quasi 30 mila domande di intervento, la maggior parte delle quali per episodi legati a malattia mentale e tossicodipendenza.
Per avere successo, i processi di trasformazione a livello locale dovranno essere sostenuti da un’azione decisa da parte della nuova amministrazione guidata da Joe Biden e Kamala Harris. Saranno anzitutto necessari investimenti federali per permettere a stati e città di ampliare servizi di assistenza e sanità pubblica. Per questo sarà decisivo il risultato del ballottaggio il 5 gennaio in Georgia per eleggere due senatori: un Senato a maggioranza repubblicana sarebbe un ostacolo difficile da superare per qualsiasi manovra espansiva.
In materia di giustizia penale, servono riforme che portino a una significativa diminuzione della popolazione carceraria. La nuova amministrazione si muoverà in questa direzione? Tra attiviste e militanti nei movimenti sociali seguiti alla morte di George Floyd prevale, per ora, un certo scetticismo: molti fanno notare come nel 1994 Biden sia stato il principale promotore del Violent Crime Control and Law Enforcement Act, che contribuì all’aumento dei tassi di incarcerazione, specialmente nelle comunità di colore. A Harris viene rimproverato di non aver fatto abbastanza per punire gli abusi delle forze dell’ordine durante il suo mandato come procuratore generale della California, tra il 2011 e il 2017. Entrambi, d’altro canto, hanno pubblicamente ripudiato alcune delle posizioni precedentemente assunte e durante la campagna presidenziale hanno presentato una piattaforma di riforme radicali, tra cui l’eliminazione della cauzione monetaria per reati minori e la revisione delle sentenze minime obbligatorie.
Il fatto che politici tradizionalmente moderati come Biden e Harris abbiano sostenuto una piattaforma simile mostra l’influenza dei movimenti sociali dell’estate 2020 sul discorso pubblico americano. Per rispondere alla crisi di legittimità del “governo della paura”, misure come il Justice in Policing Act non saranno sufficienti. La crisi richiede che la nuova amministrazione collabori con le comunità locali per ripensare ruolo e responsabilità delle forze dell’ordine, per costruire nuovi modelli di sicurezza pubblica nelle città americane.