Eccellenza Reverendissima,
il Santo Padre si rallegra che il Meeting per l’amicizia tra i popoli torni a svolgersi “in presenza” e rivolge a Lei, agli organizzatori e a tutti i partecipanti il Suo saluto con l’augurio di un proficuo svolgimento.
Il titolo scelto — «Il coraggio di dire io» —, tratto dal Diario del filosofo danese Soren Kierkegaard, è quanto mai significativo nel momento in cui si tratta di ripartire con il piede giusto, per non sprecare l’occasione data dalla crisi della pandemia. “Ripartenza” è la parola d’ordine. Ma essa non si realizza automaticamente, perché in ogni iniziativa umana è implicata la libertà. Lo ricordava Benedetto XVI: «La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo […] sia un nuovo inizio. […] La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene» (Enc. Spe salvi, 24). In questo senso, il coraggio di rischiare è innanzitutto un atto della libertà.
Durante il primo lockdown, Papa Francesco ha richiamato tutti all’esercizio di questa libertà: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla» (Omelia di Pentecoste, 31 maggio 2020).
Mentre ha imposto il distanziamento fisico, la pandemia ha rimesso al centro la persona, l’io di ciascuno, provocando in molti casi un risveglio delle domande fondamentali sul significato dell’esistenza e sull’utilità del vivere che da troppo tempo erano sopite o peggio censurate. E ha suscitato anche il senso di una responsabilità personale. Tanti lo hanno testimoniato in diverse situazioni. Davanti alla malattia e al dolore, di fronte all’emergere di un bisogno, molte persone non si sono tirate indietro e hanno detto: «Eccomi».
La società ha necessità vitale di persone che siano presenze responsabili. Senza persona non c’è società, ma aggregazione casuale di esseri che non sanno perché sono insieme. Come unico collante rimarrebbe solo l’egoismo del calcolo e dell’interesse particolare che rende indifferenti a tutto e a tutti. Del resto, le idolatrie del potere e del denaro preferiscono avere a che fare con individui piuttosto che con persone, cioè con un “io” concentrato sui propri bisogni e i propri diritti soggettivi piuttosto che un “io” aperto agli altri, proteso a formare il “noi” della fraternità e dell’amicizia sociale.
Il Santo Padre non si stanca di mettere in guardia coloro che hanno responsabilità pubbliche dalla tentazione di usare la persona e di scartarla quando non serve più, invece di servirla. Dopo quello che abbiamo vissuto in questo tempo, forse è più evidente a tutti che proprio la persona è il punto da cui tutto può ripartire.
Certamente c’è la necessità di reperire risorse e mezzi per rimettere in moto la società, ma c’è bisogno innanzitutto di qualcuno che abbia il coraggio di dire “io” con responsabilità e non con egoismo, comunicando con la sua stessa vita che si può cominciare la giornata con una speranza affidabile.
Ma il coraggio non è sempre una dote spontanea e nessuno può darselo da sé (come diceva il don Abbondio manzoniano), soprattutto in un’epoca come la nostra, nella quale la paura — rivelatrice di una profonda insicurezza esistenziale — gioca un ruolo così determinante da bloccare tante energie e slanci verso il futuro, percepito sempre più come incerto soprattutto dai giovani.
In questo senso, il Servo di Dio Luigi Giussani avvertiva di un duplice pericolo: «Il primo pericolo […] è la dubbiezza. Annota Kierkegaard: “Aristotele dice che la filosofia comincia con la meraviglia, e non come ai nostri tempi con il dubbio”. Il dubbio sistematico è, come dire, il simbolo del nostro tempo. […] La seconda obiezione alla decisione dell’io è la meschinità. […] Dubbiezza e comodismo, questi sono i nostri due nemici, i nemici dell’io» (In cammino 1992-1998, Milano 2014, 48-49).
Da dove può venire, allora, il coraggio di dire io? Avviene grazie a quel fenomeno che si chiama incontro: «Solo nel fenomeno dell’incontro si dà la possibilità all’io di decidere, di rendersi capace di accogliere, di riconoscere e di accogliere. Il coraggio di dire “io” nasce di fronte alla verità, e la verità è una presenza» (ibid., 49). Dal giorno in cui si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi, Dio ha dato all’uomo la possibilità di uscire dalla paura e di trovare l’energia del bene seguendo il suo Figlio, morto e risorto. Sono illuminanti le parole di San Tommaso d’Aquino quando afferma che «la vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la più grande soddisfazione» (Summa Theologiae, II-II, q. 179, a. I co.).
Il rapporto filiale con il Padre eterno, che si rende presente in persone raggiunte e cambiate da Cristo, dà consistenza all’io, liberandolo dalla paura e aprendolo al mondo con atteggiamento positivo. Genera una volontà di bene: «Ogni esperienza autentica di verità e di bellezza cerca per se stessa la sua espansione, e ogni persona che viva una profonda liberazione acquisisce maggiore sensibilità davanti alle necessità degli altri. Comunicandolo, il bene attecchisce e si sviluppa» (FRANCESCO, Esort. ap. Evangelii gaudium, 9).
È questa esperienza che infonde il coraggio della speranza: «L’incontro con Cristo, il lasciarsi afferrare e guidare dal suo amore allarga l’orizzonte dell’esistenza, le dona una speranza solida che non delude. La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita. Essa fa scoprire una grande chiamata, la vocazione all’amore, e assicura che quest’amore è affidabile, che vale la pena di consegnarsi ad esso, perché il suo fondamento si trova nella fedeltà di Dio, più forte di ogni nostra fragilità» (ID., Enc. Lumen fidei, 53).
Pensiamo alla figura di San Pietro: gli Atti degli Apostoli riferiscono queste sue parole, dopo che gli era stato severamente proibito di continuare a parlare nel nome di Gesù: «Se sia giusto dinanzi a Dio obbedire a voi invece che a Dio, giudicatelo voi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (4,19-20). Da dove trae il coraggio «questo codardo che ha rinnegato il Signore? Cosa è successo nel cuore di quest’uomo? Il dono dello Spirito Santo» (FRANCESCO, Omelia nella Messa a Casa S. Marta, 18 aprile 2020).
La ragione profonda del coraggio del cristiano è Cristo. È il Signore risorto la nostra sicurezza, che ci fa sperimentare una pace profonda anche in mezzo alle tempeste della vita. Il Santo Padre auspica che nella settimana del Meeting organizzatori e ospiti ne diano testimonianza viva, facendo proprio il compito indicato nel documento programmatico del suo pontificato: «Molti […] cercano Dio segretamente, mossi dalla nostalgia del suo volto, anche in paesi di antica tradizione cristiana. […] I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 14).
La gioia del Vangelo infonde l’audacia di percorrere nuove strade: «Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne, […] particolarmente attraenti per gli altri» (ibid., 167). È il contributo che il Santo Padre si aspetta che il Meeting dia alla ripartenza, nella consapevolezza che «la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (Enc. Lumen fidei, 34), nessuno escluso, perché l’orizzonte della fede in Cristo è il mondo intero.
Nell’affidare a Lei, cara Eccellenza, questo messaggio, Papa Francesco chiede il ricordo nella preghiera e di cuore La benedice e benedice i responsabili, i volontari e i partecipanti al Meeting 2021.
Formulo anch’io i migliori auguri per la buona riuscita dell’evento e profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio
di Vostra Eccellenza Reverendissima dev.mo
Pietro Card. Parolin Segretario di Stato