Tratto da lavoce.info
DI PIERGAETANO MARCHETTI, presidente della Fondazione Corriere della Sera dal 2004.
E MARCO VENTORUZZO, professore ordinario di diritto commerciale all’Università Bocconi e insegna anche presso la Pennsylvania State University Law School
Negli ultimi anni, molte discipline sociali hanno fatto sempre più ricorso ad approcci delle scienze sperimentali. Il rischio è di dare più importanza al metodo che al merito, mettendo in secondo piano la rilevanza o l’originalità dell’idea di fondo.
Il “mercato” delle pubblicazioni
Quali problemi solleva oggi il mondo della ricerca giuridica e, più in generale, delle cosiddette scienze sociali? Senza pretesa di completezza e con non poche semplificazioni, ecco alcune riflessioni che certo possono sollevare levate di scudi e rivelarsi controverse, anche perché toccano interessi costituiti.
I ricercatori fanno carriera grazie alle pubblicazioni, in particolare su riviste di settore, ma come funziona il “mercato” delle pubblicazioni (e il termine, ormai in voga, già anticipa qualche dubbio)? Seguendo un approccio tipico, fino ad alcuni anni fa, delle scienze “dure”, sperimentali, anche per accreditarsi come pubblicazione scientifica negli elenchi ministeriali, rilevare a fini concorsuali e così via, è ormai essenziale la “revisione doppiamente cieca”. La direzione o il comitato editoriale della rivista fanno una prima scrematura non anonima degli scritti proposti e i lavori ritenuti di potenziale interesse sono mandati a uno o due valutatori non formalmente affiliati alla rivista, in linea di principio esperti della materia, in forma anonima: anonimi sono gli autori per i referees, e viceversa. I valutatori leggono e restituiscono rigettando, approvando ma suggerendo modifiche, o suggerendo l’immediata pubblicazione senza ritocchi. Bene, ma ci sono innanzitutto alcuni problemi noti, che conviene ricordare. Talvolta, l’anonimità è nei fatti una mezza finzione: i “circoli” degli studiosi sono più ristretti di quanto si pensi e spesso è facile per un revisore capire chi scrive, e viceversa. Ciò soprattutto quando i lavori, per natura, temi e lingua (e non diciamo che solo l’inglese ormai è lingua franca, almeno per il diritto e altre materie), possono essere seriamente valutati da una comunità molto piccola. Secondo: un conto è verificare la correttezza di un modello o di un metodo, di una formula, di dati, di ipotesi, terapie, esperimenti nelle scienze esatte, altro conto è valutare studi – non per questo di minore importanza, impatto e significato – che si basano anche su opinioni, interpretazioni, giudizi di valore, proposte non falsificabili (letteratura, diritto, storia dell’arte, politologia e così via). Certo, si può rispondere che allora non sono scienze esatte, ma l’accademia, la cultura e la formazione non comprendono solo scienze esatte e sperimentali.
La deresponsabilizzazione
Soprattutto, però, il sistema può portare a una sorta di “deresponsabilizzazione” dei direttori delle riviste: in pratica, se un lavoro raggiunge una soglia minima, magari più o meno elevata ma con una forte discrezionalità, viene mandato al referaggio; e nella maggior parte dei casi si segue abbastanza passivamente il responso del revisore. E allora quali sono gli incentivi del referee? Sono tutti occhiuti, rigorosi, illuminati, puri e non conflittati difensori del progresso del campo in cui operano? E proprio la segretezza, da un lato funzionale a responsi meno condizionati, non riduce la trasparenza su possibili conflitti? O comunque non rende meno responsabili i soggetti coinvolti? In certo modo, i direttori mettono “meno la faccia” nella selezione dei lavori: lo ha detto il referee e tanto basta. Naturalmente anche un potere discrezionale e senza controlli di direzioni e redazioni mostra problemi di autoreferenzialità se non vi sono effetti reputazionali, va però detto che un problema non è sempre minore dell’altro.
Un secondo aspetto, collegato, è la tendenza ad abbracciare la religione delle classifiche, dei ranking, degli elenchi di buoni e cattivi in modo acritico. Innumerevoli sono gli studi che spiegano i limiti e i conflitti di interesse – quando non le pratiche non del tutto corrette – di molte classifiche in ambito accademico, anche di università, o quantomeno la poca trasparenza delle pagelle. Siccome il cervello è pigro, e occorre sintetizzare, accade però che, una volta in “serie A”, una rivista diventa intoccabile: chi vi ha scritto, insieme alle direzioni, la difenderà coi denti, e difenderà inevitabilmente una sorta di aprioristica correlazione tra ranking della sede di pubblicazione e qualità del lavoro. Considerazioni analoghe valgono per le misure di citazione: certo una approssimazione seppur imperfetta di incidenza sul discorso scientifico, di “popolarità”, di mode cui nemmeno gli scienziati sono immuni, non prive di un contenuto informativo, ma naturalmente – oltre che affette da non poche debolezze metodologiche – non sono misure della qualità intrinseca di ogni lavoro o del ricercatore nel suo complesso.
Intendiamo: nessuno dice che una qualche distinzione tra sedi più o meno prestigiose e misure bibliometriche siano prive di significato, il punto è metterle nel giusto contesto insieme ad altri elementi valutativi e soprattutto non rinunciare a quella fondamentale attività, seppur un po’ soggettiva, di valutare nel merito, leggendo e assumendosi in prima persona la responsabilità del giudizio, i singoli lavori. Non si può delegare quasi interamente (come purtroppo spesso alcuni fanno) a un ranking o al numero delle citazioni il lavoro di un ricercatore, e quantomeno occorre fare confronti omogenei anche di queste misure. Chi studia le malattie rare insieme a tre altri medici in tutto il mondo, o un esperto della Sharia medioevale che scrive in arabo, è necessariamente meno valido di chi scrive in inglese del marketing dei social media e viene tanto citato in un certo periodo?
Il metodo più del merito
Veniamo così all’ultimo punto che vogliamo sottolineare. Nella loro ricerca di una patente di scientificità, molte discipline sociali si sono sempre più spostate su un versante che offre appigli per rivendicare tali caratteristiche. Un movimento con molti lati positivi e testimone di sforzi intellettuali e di razionalizzazione meritevoli e utili. Esiste però il rischio che l’enfasi sia posta più sul metodo che sul merito. Sappiamo naturalmente che una cosa è fare un’affermazione qualitativa, altro – e frequentemente prezioso – è esprimerla in un modello teorico rigoroso o testarla con un’indagine empirica. La sensazione, però, è che talvolta ciò metta in secondo piano la rilevanza, l’importanza, l’originalità dell’idea di fondo, della questione di ricerca, della conclusione. Esiste il rischio di un certo manierismo e di un gioco in cui è più importante conformarsi a regole e linguaggi accettati che sparigliare le carte o affrontare problemi concreti che poco si prestano a questo modello di indagine. Sarebbe antipatico fare esempi, ma senza arrivare all’intelligente ironia dei premi “Ignoble”, chiunque bazzichi università di scienze sociali sa di articoli esaltati in pompa magna che, alla fine e pur con tutti i crismi della formula matematica o statistica, se li si legge con attenzione e spirito critico, confermano grandi banalità, risultati del tutto intuitivi, quando non leggermente ridicoli o bizzarramente di nicchia. Non solo: siccome i dati sono spesso disponibili solo in relazione ad alcune realtà geografiche o comunque limitate, ciò porta a una riallocazione dell’attenzione solo verso certi paesi o sistemi e a conclusioni che – anche ammettendone correttezza e rilevanza – ignorano o sottovalutano variabili istituzionali e specificità, pur tendendo a generalizzazioni.
L’obiettivo non è mettere in discussione l’intero impianto della ricerca, riproporre nostalgicamente sistemi con pochi controlli, né tantomeno mettere in dubbio il valore e i contributi di molti scienziati sociali che dominano questi sistemi, bensì porre con forza l’accento sulle imperfezioni dell’attuale sistema che, come minimo, deve essere letto consapevolmente e senza rinunciare al fondamentale e difficile compito di valutare le cose nel merito, distinguere e riconoscere dignità anche ad approcci diversi o inadatti a certe metodologie. Un compito faticoso, qualitativo, con elementi di soggettività, che richiede un po’ di coraggio, ma che non può affidarsi solo ad algoritmi, nascondendosi dietro una pretesa oggettività che spesso scarseggia o misura solo parte di ciò che conta. Lo abbiamo già scritto: la ricerca non è il tennis, in cui individuare il numero uno al mondo è (più) facile.
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