Tratto da lavoce.info
DI ANDREA GAVOSTO, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli dal 2008
Il Dl n. 36 regola il meccanismo di immissione in ruolo degli insegnanti. Mette al centro la formazione iniziale e stabilisce una chiara distinzione fra il momento dell’abilitazione e quello dell’assunzione. Ma non definisce un vero percorso di carriera.
Il fallimento del doppio canale
Il decreto legge 30 aprile 2022 n. 36, che disciplina formazione, reclutamento e sviluppo professionale dei docenti, rappresenta la più importante fra le riforme della scuola che Governo e Parlamento hanno concordato con l’Unione europea nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza.
L’attuale meccanismo di immissione in ruolo fondato sul “doppio canale” (graduatorie di merito dei vincitori di concorso e graduatorie a esaurimento degli abilitati che un concorso non l’hanno vinto) produce risultati fallimentari da molti anni: in media il 48 per cento dei posti di ruolo messi a disposizione dal governo non trova copertura con docenti con le necessarie qualificazioni; contemporaneamente, il numero di supplenti annuali ha nettamente superato i 200 mila, ovvero un quinto di tutto il personale docente. Questi dati segnalano un enorme mismatch fra domanda e offerta di insegnanti, sia per area geografica sia per classe di concorso, che ostacola la continuità didattica, abbassa la qualità degli apprendimenti e rende sempre meno decorose e appetibili le condizioni di impiego nella scuola. Il “doppio canale” è ormai giunto al capolinea.
Se i meccanismi di assunzione nella scuola sono ormai inefficaci, ancora peggiore è la situazione della formazione iniziale dei docenti delle scuole secondarie: dopo i tentativi da parte di governi di vario colore di introdurre percorsi che consentissero ai neo-docenti di raggiungere standard adeguati di competenze disciplinari e didattiche, oggi siamo all’anno zero. Per salire in cattedra bastano solamente 24 crediti formativi universitari (Cfu) definiti genericamente all’interno delle materie antropologiche, pedagogiche e psicologiche, senza alcun obbligo di acquisire i rudimenti di metodologia didattica e frequentare un tirocinio nelle scuole, che invece rappresenta la prassi europea.
Le assunzioni nel Dl 36
Il Dl n. 36 punta a correggere le anomalie introducendo un nuovo percorso, basato su due principi largamente condivisibili. In primo luogo, pone al centro la formazione iniziale, con una forte sottolineatura della componente didattica; in secondo luogo, stabilisce una chiara distinzione fra il momento dell’abilitazione, che serve a verificare nei candidati le competenze minime per insegnare, e quello dell’assunzione, dove scuole e docenti si incontrano dal punto di vista lavorativo.
L’aspetto meno convincente di tutto l’impianto è, tuttavia, lo sviluppo professionale dei docenti: di vera carriera il decreto non parla, ma introduce soltanto un parziale incentivo economico.
In sintesi, per diventare docenti delle secondarie in futuro occorrerà avere una laurea magistrale disciplinare, aver frequentato (anche in contemporanea) un corso universitario di formazione per 60 crediti formativi (in pratica un anno, inclusivo di tirocini) e aver superato un esame di abilitazione. Chi è abilitato può accedere al concorso (che dovrebbe tenersi annualmente) e, in caso di successo, essere assunto per un anno di prova. Al termine, dopo una verifica da parte della scuola, si ottiene la conferma a tempo indeterminato.
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Lo snodo centrale è l’abilitazione, che dovrebbe garantire che tutti i neoassunti soddisfino standard elevati acquisiti attraverso la formazione iniziale: di fronte a insegnanti ben formati, competenti e motivati, quale sia il meccanismo di assunzione prescelto diventa quasi secondario. Volendo risolvere il problema del mismatch,la soluzione preferibile non è quella del concorso nazionale indicato dal decreto, che ha tradizionalmente tempi lunghi e procedure farraginose, ma quella di una selezione diretta da parte delle scuole, che meglio conoscono le proprie necessità. Sarebbe una scelta coraggiosa e non incompatibile con il dettato costituzionale: andrebbe però accompagnata da un sistema di valutazione dell’operato dei presidi, basato anche sui risultati degli studenti, in modo da assicurarsi che effettuino le scelte migliori
Diventa quindi cruciale capire come funzioneranno corso di formazione ed esame di abilitazione. Il decreto prevede, in maniera un po’ ambigua, che 20 dei 60 Cfu siano acquisiti attraverso tirocini a scuola o in situazioni simulate all’università. Mentre nel primo caso si acquisisce un’esperienza diretta del lavoro in aula e dell’interazione con gli studenti, nel secondo gli allievi si confrontano solo fra di loro: si tratta di un povero surrogato, e andrebbe quindi eliminato dal dibattito parlamentare. L’esame di abilitazione consiste in una prova finale, che include uno scritto e una lezione simulata: data la sua centralità nel nuovo schema, è fondamentale che l’esame sia improntato al massimo rigore, verificando in modo minuzioso le competenze disciplinari, didattiche (metodologia e pratica), linguistiche, digitali e organizzative e l’attitudine all’insegnamento dei futuri docenti.
Due deroghe e il premio una tantum
Logica vuole che il momento della formazione e dell’abilitazione preceda quello dell’assunzione, essendo il primo un requisito della partecipazione ai concorsi. Eppure, nel decreto questo criterio non è rispettato in due casi:
1. in via transitoria, fino al 2024, è possibile per tutti i candidati presentarsi a un corso per l’insegnamento avendo conseguito solo 30 dei 60 Cfu richiesti dalla formazione iniziale. La ragione del provvedimento transitorio va ricercata nella difficoltà degli atenei di attivare in tempi brevi la nuova formazione iniziale.
2. Anche a regime, tutti i docenti privi di abilitazione, ma con 36 mesi di insegnamento negli ultimi cinque anni, possono presentarsi al concorso. Dopo la vittoria al concorso, il candidato potrà conseguire una formazione iniziale (con successiva abilitazione) limitata però a soli 30 Cfu. Si rovescia in modo incomprensibile la logica del provvedimento: che senso ha abilitare qualcuno che si è già deciso di assumere? Perché equiparare tre anni di insegnamento, senza tutoraggio e senza valutazione della qualità del docente, a un percorso formativo? Il rischio, date le decine di migliaia di supplenti con 36 mesi di lavoro, è che per molti diventi il canale prioritario di immissione in ruolo, con standard qualitativi inferiori. Bisognerebbe ripristinare l’iter naturale, imponendo il passaggio dell’abilitazione anche a coloro che hanno già insegnato per 36 mesi.
Nella parte finale il Dl 36 cerca di annodare due aspetti in cui la scuola italiana mostra tradizionali carenze rispetto all’Europa: il modesto grado di aggiornamento e formazione di cui storicamente soffrono i nostri docenti e l’assenza di una progressione stipendiale e di carriera lungo la loro vita lavorativa. Intento ambizioso, che non mantiene le attese, producendo solo un premio economico una tantum al 40 per cento di coloro che frequentano almeno tre anni di corsi di formazione in servizio (per i neoassunti la formazione in servizio è invece obbligatoria). La scelta di indurre i docenti a formarsi attraverso incentivi economici è figlia della rinuncia a rendere tassativo l’aggiornamento in itinere: la Buona scuola del Governo Renzi aveva previsto l’obbligatorietà, ma il successivo contratto collettivo di lavoro ha reso la scelta largamente discrezionale. Sarebbe invece opportuno ripristinare il principio che tutti i docenti devono essere soggetti a un obbligo, verificato, di aggiornamento disciplinare e didattico. A fianco di questa base comune, può avere senso che quanti intendano assumere maggiori responsabilità organizzative acquisiscano crediti aggiuntivi, condizione per lo scatto di carriera.
La scelta del Governo di ricorrere a un elemento retributivo una tantum fa venire meno l’impegno con l’Unione europea di introdurre una struttura di carriera dei docenti. Le scuole avrebbero bisogno di dotarsi di un middle management permanente, che dia riconoscibilità – e vantaggi retributivi – a coloro che si assumono responsabilità organizzative, rendendo più appetibile la professione docente. Per contro, il premio una tantum, assegnato a meno della metà di chi frequenta i corsi, difficilmente indurrà i docenti a investire nella formazione e rischia di scatenare una forte conflittualità dentro le scuole.
Andrea Gavosto interverrà al Festival Internazionale dell’Economia di Torino, dialogando con il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi il 31 maggio alle 10 al Liceo Massimo D’Azeglio. Il programma completo del Festival.
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