Trato da lavoce.info
DI DONATO BERARDI, esponsabile degli studi e delle analisi su prezzi e tariffe ed esperto di regolamentazione dei servizi pubblici, con particolare riferimento al servizio idrico,
all’ambiente e all’energia
La siccità, conseguenza dei cambiamenti climatici, si può affrontare con un piano in cinque passi. Si avrebbero benefici reali in poco tempo. Ci vuole però consapevolezza che l’acqua dolce è un bene scarso e prezioso.
L’emergenza siccità dell’estate 2022
L‘emergenza siccità dichiarata da varie regioni, i razionamenti dell’acqua in molti comuni del Nord, il dramma dei ghiacciai che si sciolgono, hanno reso chiaro a tutti che abbiamo bisogno di una strategia per adattarci, per quanto possibile, alle conseguenze di un clima che cambia.
Ma guardando ai numeri che descrivono gli impieghi dell’acqua si comprende meglio quali siano le reali priorità.
Il settore agricolo è da sempre il primo consumatore di acqua del nostro paese con oltre il 50 per cento dei prelievi, mentre l’industria incide per un altro 10-15 per cento sul fabbisogno idrico nazionale. Circa il 75 per cento dei consumi di acqua dell’industria è soddisfatto da fonti proprie, esterne al servizio idrico e alla regolazione Arera. Tessile, petrolchimica, farmaceutica, produzione di gomma e plastica, cartaria e metallurgia sono le lavorazioni a maggiore intensità di consumo di acqua per unità euro di produzione vendibile.
Come si può ben comprendere, intervenire per ridurre lo spreco di acqua nel servizio idrico, misura assolutamente necessaria, è comunque poca cosa se non coordinata in una strategia complessiva rivolta anche agli altri usi, agricoli e produttivi.
Occorre agire per evitare che, passata l’estate, il tema ritorni in secondo piano, salvo ripresentarsi la prossima primavera. Qui sembra utile provare a riepilogare quanto si sta facendo e le direzioni promettenti di intervento.
Cinque passi per l’acqua
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha stanziato risorse per circa 4 miliardi di euro (ne avevamo parlato qui), per interventi volti a ridurre le perdite idriche, digitalizzare le reti, realizzare nuovi invasi, anche oltre gli usi civili. Lo 0,2 per cento del Pil, risorse chiaramente insufficienti.
Ma cosa si potrebbe fare di più? Partiamo dagli ambiti nei quali le azioni darebbero i maggiori benefici, ovvero dai grandi consumatori di acqua dolce: agricoltura e industria.
Il primo passo. L’agricoltura assorbe circa il 50 per cento dell’acqua dolce prelevata dall’ambiente. Dunque, ogni iniziativa di adattamento e mitigazione non può prescindere da un ripensamento sulle colture nel nostro paese. Possiamo ancora permetterci varietà o colture a elevato fabbisogno di acqua? Se non vogliamo rinunciarvi, ci sono esperienze, come quella israeliana, che ci indicano una via maestra: il riuso dell’acqua depurata in agricoltura, in particolare per le colture maggiormente idro-esigenti. Il potenziale anche qui sarebbe elevato, ma in Italia c’è ancora molta diffidenza, dettata sia dal timore di come potrebbe essere accolta dal consumatore una scelta di questo tipo, sia dal fatto che l’acqua utilizzata in agricoltura è oggi prelevata dall’ambiente in modo spesso non regolamentato e, soprattutto, a costi nulli o irrisori. Arera nella sua relazione annuale ci ricorda che riutilizziamo solo il 4 per cento dell’acqua depurata. Un recente studio Enea ha misurato che con il riuso potremmo soddisfare fino al 70 per cento del fabbisogno di acqua in agricoltura di una regione come l’Emilia-Romagna, riducendo del 30 per cento i costi per i concimi.
Tra i principali ostacoli che si frappongono al riuso dell’acqua depurata vi è il basso costo dell’acqua prelevata dall’ambiente. Il riuso dell’acqua depurata necessita anche di reti per la distribuzione agli agricoltori. E dunque occorre chiarire se a pagarle debba essere chi utilizza l’acqua depurata (l’agricoltore) o chi, consumandola, l’aveva inquinata (i cittadini). Chiarito il punto (Salomone lo avrebbe risolto dividendo a metà l’onere) è sufficiente estendere il raggio di azione del servizio idrico, prevedendo l’obbligo da parte dei gestori di mettere a disposizione degli agricoltori l’acqua depurata per il riuso.
Il secondo passo è cercare di trattenere quanta più acqua possibile. Il cambiamento del clima vede precipitazioni più concentrate e copiose: occorre immagazzinare questa acqua per renderla disponibile nei mesi dell’anno in cui è più scarsa. Per questo da più parti si sottolinea la necessità di un piano per la realizzazione di nuovi invasi e dighe, che potrebbero assicurare anche la produzione di energia rinnovabile. C’è poi da interrogarsi sulla opportunità di dotarsi di impianti di desalinizzazione, energivori e dunque costosi, che però possono essere una soluzione per quei territori dove si concentrano picchi di domanda (per esempio per via del turismo) e l’acqua è scarsa.
Ma riuso dell’acqua, nuovi invasi e desalinizzatori non bastano.
Il terzo passo è allora ridurre il consumo di acqua anche nell’industria. L’introduzione di permessi negoziabili, titoli di efficienza idrica o “certificati blu”, potrebbe sostenere il percorso (Antonio Massarutto ne aveva accennato qui, un nostro studio è reperibile qui), minimizzando i costi per il sistema industriale e assicurando al contempo obiettivi chiari di risparmio della risorsa.
Il quarto passo è intervenire sulle perdite degli acquedotti, che certamente sono poca cosa rispetto alla siccità, ma hanno il vantaggio di mettere in sicurezza la parte più sensibile: garantire la disponibilità di acqua potabile alle persone. Istat ci ricorda che dalle reti dei capoluoghi di provincia italiani si perde il 36 per cento dell’acqua immessa. Arera, che ha dati più completi perché riferiti all’80 per cento del paese, dice che la situazione è anche peggiore: le perdite idriche sono nella media nazionale del 41 per cento. Sono diminuite negli ultimi anni quelle degli acquedotti, per gli indirizzi della regolazione e per l’incremento degli investimenti nel servizio idrico (più che triplicati nell’ultimo decennio). Ma di questo passo occorreranno ancora diversi lustri per riportarle sotto il 20 per cento.
Allora occorre un piano straordinario di riduzione delle perdite idriche, interconnessione e gestione più efficiente degli acquedotti (distrettualizzazione e digitalizzazione): far scendere dal 40 al 30 per cento le perdite d’acqua in cinque anni è possibile, ed è peraltro coerente con gli obiettivi già indicati dalla regolazione Arera. Si risparmierebbero circa 800 milioni di metri cubi di acqua potabile, l’equivalente del consumo annuo di 16 milioni di persone, cui si aggiungono risparmi per oltre cento milioni di euro di costi dell’energia (e dunque delle bollette dell’acqua) usata per potabilizzare e distribuire l’acqua che oggi si perde.
Infine, il quinto passo è il più difficile: ricordarci che l’acqua dolce è scarsa e preziosa. E dunque, vale per l’agricoltura come per tutti gli altri usi, il suo prezzo deve crescere e allinearsi al suo valore intrinseco e ciascun utilizzo deve pagare il costo marginale che la sua domanda aggiunge al sistema. Il prezzo deve crescere per riflettere soprattutto i costi di ripristino dell’ambiente da cui l’acqua viene prelevata e degli ecosistemi e i mancati usi da cui viene distolta.
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Affermare che l’acqua deve essere gratis per tutti equivale a dire che può essere usata e sprecata da chiunque e a piacimento. Le questioni sono urgenti. Le soluzioni esistono. Non indugiamo oltre.
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