Tratto da lavoce.info
DI CARLO STAGNARO, direttore delle ricerche dell’Istituto Bruno Leoni
Il decreto sui presunti extraprofitti delle fonti rinnovabili è certo disorganico. Nasce però dalla consapevolezza che i prezzi dell’energia elettrica rischiano di perdere il legame con i costi di produzione. Va ripensato il sistema che li determina.
Le regole attuali
I forti rincari dell’energia elettrica in Europa hanno riportato al centro del dibattito le regole per la formazione dei prezzi all’ingrosso. La questione è piuttosto tecnica e certo non può rappresentare una risposta alle dinamiche di breve termine dei mercati. Vale però la pena di chiedersi se, a venticinque anni dall’avvio della liberalizzazione europea, non sia il caso di fare il tagliando al sistema esistente. Sembra esserne persuaso il governo che, nel decreto Sostegni 2, ha messo mano ai presunti extraprofitti delle fonti rinnovabili. Si tratta di un intervento disorganico ed estemporaneo, che però nasce dalla consapevolezza che i prezzi dell’energia elettrica rischiano di perdere ogni aggancio ai costi di produzione.
Oggi, negli stati membri dell’Unione europea vige la regola del system marginal price (Smp). In pratica, per ogni ora del giorno viene costruita una curva di offerta ordinando gli impianti di produzione in ragione crescente dei loro costi marginali (principalmente: il combustibile). Il prezzo di equilibrio riflette i costi marginali dell’ultima centrale che deve entrare in esercizio per soddisfare la domanda e che, nella maggior parte dei casi, è alimentata a gas. Quel prezzo si applica a tutte le offerte accettate in quella fascia oraria, ragion per cui il sistema è noto anche come pay as clear o uniform price. In tal modo, mentre l’impianto marginale copre i suoi costi di esercizio, tutti gli altri ottengono ricavi superiori ai rispettivi costi marginali di breve termine. Attraverso la cosiddetta rendita inframarginale recuperano i costi fissi.
Come hanno mostrato Elia Bidut e Matteo Gallone su lavoce.info, le direttive europee – da cui il sistema deriva – hanno avuto un ruolo determinante nel rivoluzionare i mercati del gas e dell’energia elettrica. Se si guarda all’intero periodo, i benefici sono enormemente superiori ai costi. Le cose, però, stanno cambiando rapidamente. Le fonti rinnovabili, quali eolico, fotovoltaico e idroelettrico, hanno costi marginali praticamente nulli. Anche il nucleare li ha molto bassi. Viceversa, hanno elevati costi di investimento. Secondo Acer – l’Agenzia che coordina i regolatori europei dell’energia – il rapporto tra costi di investimento e costi di esercizio è all’incirca di 25-75 per le centrali a gas, ed esattamente l’opposto per le fonti rinnovabili.
Ne segue che, più aumenta la quota di energia elettrica verde, più si allarga la forbice tra i costi marginali e quelli medi del sistema. Gli aumenti del prezzo del gas amplificano il fenomeno, tanto che diversi paesi europei sono già intervenuti o discutono di misure straordinarie sugli extraprofitti (Spagna, Romania, Francia e Gran Bretagna, oltre all’Italia).
Confronto fra due sistemi
Quella fiscale rischia però di essere una via impervia e comunque limitata alla situazione contingente. Nel lungo termine, ha senso invece interrogarsi sulle regole.
Un’alternativa al Smp è rappresentata dai meccanismi di pay as bid, che prevedono la corresponsione – per ciascuna unità di energia prodotta – di una cifra pari al valore effettivamente richiesto in sede di formulazione delle offerte. Il pay as bid non è un meccanismo sconosciuto ai mercati elettrici: in diversi paesi disciplina i mercati del bilanciamento, attraverso cui gli operatori di rete (in Italia, Terna) si approvvigionano di risorse più o meno in tempo reale per compensare gli errori di previsione della domanda o dell’offerta. È il caso, tra gli altri, di Italia, Germania e Gran Bretagna.
Il pay as bid venne seriamente considerato all’epoca della liberalizzazione, ma poi – in quel contesto – si scelse il Smp, non ultimo per la sua semplicità. Lo ha recentemente ricordato l’ex presidente dell’Autorità per l’energia, Guido Bortoni, pure molto critico sull’opportunità di riaprire quel dibattito. Eppure, il dibattito c’è: l’ha aperto la Spagna, che diversi mesi fa ha chiesto alla Commissione europea di avviare una riflessione in merito (ricevendone un secco no). Sempre la Spagna è tornata alla carica a dicembre, promuovendo un non-paper a cui hanno aderito anche l’Italia, la Francia, la Grecia e la Romania.
Quali sono i pro e i contro di ciascun sistema? Il Smp ha essenzialmente due vantaggi: in primo luogo induce gli operatori a “rivelare” i proprio reali costi marginali; secondariamente garantisce agli impianti a bassi costi marginali e alti costi fissi che potranno recuperare l’investimento attraverso le rendite inframarginali. Tuttavia, c’è il rischio simmetrico che vengano sovra-remunerati (come forse accade adesso) e che aumenti la volatilità dei mercati. Soprattutto, in un meccanismo di Smp è più facile colludere o esercitare potere di mercato: se un operatore sa che, in una certa ora, un suo impianto potrebbe essere marginale, ha interesse a non metterlo a disposizione (capacity withholding) rendendo quindi necessaria la chiamata di una centrale più costosa e facendo lievitare i prezzi. Questi abusi non sono rari: in Italia sono stati documentati e parzialmente risolti con interventi invasivi del regolatore.
Viceversa, sotto il pay as bid nessuno può, da solo, determinare il prezzo dell’intero sistema: ognuno, con le sue strategie di offerta, stabilisce il prezzo in corrispondenza del quale è disponibile a produrre, ma non influenza la remunerazione dei concorrenti. Inoltre, il pay as bid spinge gli operatori a rivelare i loro costi di riserva, cioè quelli al di sotto dei quali non sono disposti a mettere in funzione l’impianto. Ciò non significa che i meccanismi di pay as bid siano perfetti. Come ha scritto Pippo Ranci, “gli offerenti si adatterebbero alla nuova regola. Oggi, ad esempio, un produttore di energia con alti costi fissi e bassi costi variabili può offrire al suo costo marginale che può essere vicino a zero, così è certo che la sua offerta sarà accettata (…). Domani (…) farà un’offerta cercando di indovinare il prezzo che si formerà sul mercato, e starà solo un filo al di sotto di quello (…). Con un po’ di errori e successive correzioni, è probabile che il mercato finisca più o meno dove sta oggi”. Tuttavia, c’è qualche evidenza che – se il mercato è sufficientemente competitivo e l’informazione sufficientemente completa – il pay as bid possa essere un meccanismo preferibile.
In sintesi, la domanda a cui bisogna rispondere è se le ragioni che hanno indotto a preferire il Smp restano ancora valide in un contesto radicalmente mutato, dove il prezzo marginale dipende sempre più da impianti (a gas) con caratteristiche per nulla rappresentative della gran parte del parco di generazione (fatto soprattutto di rinnovabili). Tra l’altro, una quota crescente dell’energia viene già oggi scambiata al di fuori della borsa, e quindi seguendo un principio che, di fatto, è quello del pay as bid. Ancora più importante è il fatto che è sempre più comune la stipula di accordi per la cessione dell’energia a lungo termine (i cosiddetti Ppa), che la politica vorrebbe addirittura incentivare: anche in questo caso il prezzo dell’energia è generalmente slegato dai costi marginali del sistema. Infine, l’intermittenza delle rinnovabili rende fondamentale il mercato dei servizi di dispacciamento, che è disciplinato dalla regola del pay as bid. Insomma: è la realtà stessa che mette in questione l’adeguatezza del Smp alle nuove forme dei mercati elettrici.
È difficile dire, in astratto, se e fino a che punto il passaggio dal Smp al pay as bid risolverebbe gli evidenti problemi dei mercati elettrici. Sarebbe però un errore dedurre dalla complessità del tema la conclusione che lo status quo è intoccabile, anche perché i suoi limiti – se mai non siano stati evidenti – oggi sono sotto gli occhi di tutti.
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