DI PAOLO BALDUZZI, all Cattolica di Milano insegna Scienza delle finanze ai corsi diurni e serali, triennali e magistrali.
E ANTONIO MARIA DE ROSA, università Bocconi, dove attualmente sta concludendo la laurea magistrale in Economia e scienze sociali
Nel 1996 la riforma Dini ha introdotto il metodo di calcolo contributivo nel nostro sistema pensionistico. Dopo oltre 25 anni, il periodo di transizione non è completo né sono state sanate alcune iniquità, in particolare sui coefficienti di trasformazione.
Giovani e anziani, uomini e donne
La riforma Dini delle pensioni ha compiuto ventisette anni il primo gennaio di quest’anno. Tuttavia, almeno fino alla riforma Monti-Fornero del 2012, la sua diffusione fu sostanzialmente nulla, tanto che, ancora nel 2011, si stimava che oltre il 90 per cento dei pensionati lo era in virtù delle vecchie regole. La lentezza del periodo di transizione, che prevedeva la totale esenzione (sempre almeno fino al 2012) dalle regole Dini per chi aveva già accumulato almeno 18 anni di contributi all’1/1/1996, determinò di fatto una spaccatura generazionale che avrebbe garantito, e garantirà, a parità di età di pensionamento e anni di lavoro, tassi di sostituzione molto più elevati alle generazioni più anziane e tassi di sostituzione più contenuti a quelle più giovani. Non si tratta, però, della sola iniquità del nostro sistema previdenziale. Quella più macroscopica, almeno per gli addetti ai lavori, riguarda l’unicità dei coefficienti di trasformazione. La loro funzione si spiega piuttosto semplicemente. Il metodo di calcolo contributivo collega i contributi versati (e fittiziamente capitalizzati a un tasso di crescita legato all’andamento dell’economia) all’aspettativa di vita al momento del pensionamento. La pensione annua cui un lavoratore ha diritto viene calcolata moltiplicando il montante contributivo fittizio per numeri (chiamati appunto coefficienti di trasformazione) che aumentano all’aumentare dell’età di pensionamento. Chi andrà in pensione prima avrà diritto a una pensione annua inferiore, chi lavorerà più a lungo, invece, avrà diritto a una pensione annua superiore, a parità di montante contributivo. Se questo è chiaro, allora lo sarà anche il fatto che, a parità di tutte le altre condizioni (età di pensionamento, contributi versati, tasso di capitalizzazione), una donna, che mediamente gode di aspettativa di vita più elevata, avrebbe diritto a una pensione annuale (o mensile) inferiore a quella di un uomo. È molto facile vendere politicamente l’unicità dei coefficienti di trasformazione rispetto al genere: in questo modo, una donna non sarà penalizzata dall’avere un’aspettativa di vita più lunga e anzi sarà sussidiata dagli uomini che, al contrario, dovranno accontentarsi di benefici previdenziali minori di quelli cui avrebbero diritto con un coefficiente di trasformazione specifico per genere. La riforma Dini introdusse sin dall’inizio coefficienti di trasformazione unici in relazione al genere: la scelta aveva l’obiettivo di non penalizzare ulteriormente le lavoratrici, la cui carriera è solitamente più irregolare di quella degli uomini. Ma, legittimamente, si sarebbe potuta prendere una decisione diversa.
Ricchi e poveri
Se l’unicità dei coefficienti di trasformazione per genere può essere condivisibile, sorge però un’altra domanda: sono solo le donne ad avere un vantaggio sistematico in termini di aspettativa di vita? Detto in maniera più esplicita, ci sono altri gruppi di individui che avendo una aspettativa di vita più elevata sono avvantaggiati dai coefficienti di trasformazione unici? La risposta è sì. Gran parte della ricerca concorda, per esempio, sul fatto che chi ha più alti livelli di istruzione e di reddito abbia un’aspettativa di vita più elevata della media della popolazione. Una sezione dell’ultimo Rapporto Inps sulle pensioni evidenzia innanzitutto come, tra il primo e il quinto quintile di reddito coniugale (definito dall’Istituto di previdenza come somma delle “pensioni da lavoro dei soggetti che sulla base degli archivi risultano coniugati”), la differenza nell’aspettativa di vita aumenti di 1,7 anni per le donne e addirittura di 2,6 anni per gli uomini. Cosa significa? Che i lavoratori più poveri, in media e sempre a parità di altre condizioni, avranno una pensione più bassa di quella cui avrebbero avuto diritto se il coefficiente di trasformazione fosse stato legato alla classe di reddito di appartenenza. Viceversa, i lavoratori più ricchi.
In altri termini, le disparità nella longevità comportano un sussidio implicito per le categorie che vivono più a lungo, mentre rappresentano una tassa implicita sui benefici previdenziali degli individui che vivono meno. Due recenti studi aiutano a chiarire la portata di questo fenomeno. Il primo, pubblicato su Risks, stima in Italia una tassazione implicita del 10 per cento sul reddito pensionistico degli uomini a vantaggio delle donne. Nel caso dei residenti nel Mezzogiorno, invece, si stima una tassazione implicita del 2 per cento a vantaggio delle regioni del Centro-Nord. Il secondo studio, pubblicato su Demography, quantifica in circa un quarto il contributo dell’aspettativa di vita sulla disuguaglianza dei redditi pensionistici percepiti durante la propria vita in Svezia, un altro paese che utilizza il metodo di calcolo contributivo. Vista sotto questa prospettiva, naturalmente, l’unicità dei coefficienti di trasformazione assume un aspetto molto meno convincente.
I criteri per un metodo contributivo più equo
Un intervento da parte della politica richiede una riflessione attenta su quali siano gli obiettivi da perseguire e quali le riforme da attuare. Alcune misure volte a sanare l’iniquità del nostro sistema pensionistico già esistono, come il pensionamento anticipato per le professioni usuranti. L’agevolazione consente ai lavoratori pubblici e privati che svolgono lavori particolarmente faticosi e pesanti di accedere alla pensione anticipata con requisiti agevolati. Oggi la misura riguarda specificatamente solo la parte retributiva. A regime, cioè con una pensione totalmente o almeno prevalentemente contributiva, la legislazione dovrebbe prevedere, per esempio, l’assenza di penalizzazioni in termini di aspettativa di vita dovuta all’anticipo pensionistico. La definizione di “usurante” si basa sui danni biologici che certe occupazioni possono infliggere ai lavoratori. Tuttavia, è importante che l’inclusione nella casistica di determinate professioni sia sostenuta da precise evidenze scientifiche e non si basi unicamente su supposizioni. Per rendere il sistema contributivo più equo, si può intervenire anche negli stadi antecedenti al calcolo del reddito pensionistico. Alcuni esempi sono la differenziazione dei tassi contributivi, che possono essere sussidiati per i redditi più bassi e quindi portare a pensioni più elevate, o dell’età di pensionamento in base alla categoria socio-economica di appartenenza, con meccanismi simili a quelli utilizzati per i lavoratori usuranti. Tuttavia, la soluzione più diretta dovrebbe riguardare la riformulazione dei coefficienti di trasformazione. In questo caso, sarebbero molteplici le opzioni da prendere in considerazione. Innanzitutto, bisognerebbe decidere a quali elementi collegare la discriminazione nei coefficienti. La questione è tutt’altro che banale, poiché sono numerose le caratteristiche che influenzano la longevità di un individuo. Ad esempio, bisognerebbe decidere se collegare i coefficienti a fattori “esogeni”, quali per esempio il genere, o a fattori “endogeni”, come l’area geografica, il reddito familiare, lo stato civile o il livello di istruzione. Questi ultimi dipendono in larga parte dalle scelte individuali, e la differenziazione dei coefficienti in base a questi criteri comporterebbe effetti collaterali da tenere in conto. Inoltre, la scelta non riguarderebbe solamente quali variabili selezionare, ma anche quanti coefficienti sviluppare per ognuna di esse. Per fare un esempio, se si vogliono differenziare i coefficienti di trasformazione in base al reddito, bisogna decidere come suddividere le fasce di reddito: in quintili, in decili o in maniera più arbitraria? Ovviamente, nessuna scelta sarà perfetta, poiché qualcuno sarà sempre al di sopra o al di sotto della media della categoria di appartenenza. Il problema, quindi, rischia di essere senza soluzione. In conclusione, la differenziazione dei coefficienti di trasformazione, per quanto desiderabile in linea teorica, sarebbe caratterizzata da elevata complessità e, soprattutto, da estrema arbitrarietà rispetto alle dimensioni di differenziazioni e ai valori di riferimento. Così da non riuscire davvero a risolvere il problema e, probabilmente, nemmeno a trovare sufficiente consenso per una sua realizzazione.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!