Tratto da lavoce.info
DI ANGELO BAGLIONI, professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano
In Europa e negli Stati Uniti prosegue la “normalizzazione” della politica monetaria. La restrizione dipende anche dalla riduzione del bilancio delle banche centrali, non solo dai tassi. Non vanno sopravvalutati i contraccolpi sulla stabilità finanziaria.
La stretta monetaria prosegue in Usa e area euro
I provvedimenti presi la settimana scorsa dalla Fed e dalla Bce hanno dato l’impressione di una politica monetaria più aggressiva nell’area euro rispetto agli Usa: la banca centrale degli Stati Uniti si è data una pausa nel percorso di aumento dei tassi di interesse, mentre quella europea ha proseguito senza interruzioni, aumentando i suoi tassi di policy di un quarto di punto percentuale. Ma è solo un’impressione. A ben vedere, il grado di restrizione non è inferiore negli Usa, anzi: qui il tasso di policy è al 5 per cento (margine inferiore del Federal Fund target range) con un tasso di inflazione (variazione dell’indice generale dei prezzi al consumo) del 4 per cento. Nell’area euro il tasso di policy è al 3,5 per cento (tasso sulla deposit facility, che guida i tassi di mercato monetario) per una stima di inflazione del 5,4 per cento per l’anno in corso. Anche la forward guidance, per quanto stringata, lascia prevedere una ripresa degli aumenti dei tassi di interesse nelle prossime riunioni della Fed, così come per la Bce.
Il grado di restrizione della politica monetaria non dipende solo dai tassi di interesse, ma anche dal ritmo di riduzione del bilancio delle banche centrali, che avviene tramite il mancato rinnovo dei titoli in portafoglio: il cosiddetto quantitative tightening (Qt). Su questo fronte la Fed è stata finora più aggressiva della Bce, avendo avviato già da un anno una riduzione del suo portafoglio-titoli di 95 miliardi di dollari al mese. La Bce ha avviato solo a marzo di quest’anno una contrazione di 15 miliardi di euro al mese, che verrà incrementata a partire da luglio. È anche vero che il bilancio della Bce si sta riducendo spontaneamente, per somme elevate, in virtù della restituzione dei prestiti a lungo termine al sistema bancario (Targeted Longer-Term Refinancing Operations, T-Ltros): solo alla fine del mese di giugno ne scadranno 477 miliardi.
La restrizione, o meglio la “normalizzazione” della politica monetaria dopo un lungo periodo di politiche estremamente espansive, prosegue quindi su entrambe le sponde dell’Atlantico, anche se ci si può aspettare che raggiunga un punto di arrivo entro la fine di quest’anno.
L’inversione di politica monetaria è stata messa sotto accusa non solo per i suoi effetti sull’attività economica, ma anche per i suoi potenziali contraccolpi sulla stabilità del sistema finanziario. A quest’ultimo aspetto è dedicato il n. 2/2023 di Osservatorio Monetario. Qui si mostra come i dissesti bancari avvenuti di recente negli Usa (Silicon Valley Bank, Signature Bank of New York, First Republic Bank) hanno avuto origine principalmente in gravi problemi di gestione e in lacune nell’attività di vigilanza. Come abbiamo già sostenuto, il modello di business delle tre banche entrate in crisi era molto particolare: raccolta di depositi non assicurati da pochi soggetti, spesso connessi tra di loro; forte esposizione verso settori high-tech, crypto-asset, prestiti immobiliari; sottovalutazione del rischio di liquidità e di tasso di interesse. Le autorità di vigilanza – Fed e Fondo di assicurazione dei depositi (Fdic) – sono intervenute in ritardo, anche a causa della deregulation avvenuta nel 2018, che ha innalzato da 50 a 250 miliardi di dollari la soglia dimensionale oltre la quale applicare gli “standard prudenziali rafforzati”. La gestione delle crisi è avvenuta in tempi rapidi: la Fdic ha prontamente individuato istituti acquirenti per le banche entrate in crisi. Tuttavia, il costo complessivo delle tre operazioni di risoluzione per il Fondo di assicurazione è stato elevato: 35,5 miliardi di dollari.
Per molte altre istituzioni finanziarie, negli Stati Uniti e in altri paesi, l’aumento dei tassi d’interesse è stato un bene. Le banche hanno goduto di margini d’interesse più ampi, aumentando di conseguenza la loro redditività e la loro solidità. Le perdite potenziali, dovute al calo del valore di mercato dei titoli in loro possesso, in larga misura non si sono trasformate in perdite effettive: ciò è stato possibile grazie a un’adeguata gestione della liquidità, che ha impedito alle banche di essere costrette a liquidare i titoli in loro possesso prima della scadenza. Per le compagnie di assicurazione, il ritorno a livelli più normali dei tassi di interesse è un fattore positivo, dati i loro rilevanti investimenti in titoli a lungo termine di elevato standing creditizio: con i tassi negativi questa fonte di reddito si era prosciugata, inducendo alcune compagnie a strategie di investimento rischiose in cerca di rendimento.
Una politica per ogni obiettivo
La stabilità finanziaria è un compito che deve essere perseguito attraverso politiche prudenziali: sia di regolamentazione che di vigilanza. Nonostante la crescente complessità, la regolamentazione finanziaria non è sempre efficace e le azioni di vigilanza non sono sempre tempestive e adeguate. Le crisi bancarie dimostrano che sono necessarie azioni correttive tempestive a livello micro per evitare che alcune situazioni critiche, originate dalla cattiva gestione di singole istituzioni finanziarie, portino al loro collasso. Un ruolo cruciale è svolto anche dalla funzione di prestatore di ultima istanza della banca centrale: fornendo liquidità alle banche in difficoltà, la banca centrale può evitare che queste liquidino in perdita alcune attività illiquide, evitando così che una crisi di liquidità degeneri in un’insolvenza. A questo proposito, va notato che la nuova linea di liquidità della Fed (Bank Term Funding Program) ha avuto sì un ruolo positivo per la stabilizzazione del sistema bancario americano, ma è stata introdotta troppo tardi per evitare che la situazione della Silicon Valley Bank e della Signature Bank precipitasse. La politica macroprudenziale dovrebbe contribuire a stabilizzare il sistema finanziario assumendo un atteggiamento anticiclico: aumentando i requisiti patrimoniali delle banche nei periodi di congiuntura favorevole e diminuendoli durante una fase discendente del ciclo economico. Al contrario, finora le autorità macroprudenziali non hanno utilizzato attivamente i buffer di capitale anticiclici, almeno in Europa.
La conclusione è che, per rafforzare la stabilità finanziaria, sono ancora necessari alcuni miglioramenti nell’area della regolamentazione e della vigilanza prudenziale, nonostante tutti gli sviluppi positivi che si sono verificati negli ultimi anni. In un quadro in cui ogni compito è assegnato a una politica specifica, la stabilità finanziaria dovrebbe essere una questione di politica di regolamentazione e di vigilanza, mentre la politica monetaria dovrebbe concentrarsi sui suoi obiettivi finali, ossia la stabilità dei prezzi e la stabilizzazione macroeconomica. Ciò non toglie che, ove ci siano ricadute reciproche tra le diverse politiche – in particolare tra quella macroprudenziale e quella monetaria – queste vadano tenute in considerazione in un quadro di cooperazione tra le diverse autorità.
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