Tratto da lavoce.info
DI ANGELO BAGLIONI, professore ordinario di Economia Politica presso l’Università Cattolica di Milano, Facoltà di Scienze Bancarie, Finanziarie e Assicurative
La politica della Bce è meno aggressiva di quanto si pensi. Non c’è una “stretta monetaria” e la Banca centrale fa bene a uscire dalle politiche ultra-espansive degli ultimi anni. Rinviare la “normalizzazione” non farebbe altro che aumentarne i costi.
Non è una stretta monetaria
Nella seduta del 2 febbraio, il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha aumentato i tassi di interesse ufficiali di mezzo punto percentuale e ha annunciato una mossa analoga per la prossima riunione di marzo. Allo stesso tempo, ha confermato che da marzo inizierà a ridurre il suo portafoglio-titoli a un ritmo di 15 miliardi al mese (in media tra marzo e giugno, poi il ritmo di riduzione verrà rideterminato).
Potrebbero sembrare decisioni aggressive e poco giustificabili. Negli scorsi giorni non sono mancate prese di posizione di politici e commentatori che hanno stigmatizzato la linea della Bce, alla luce delle difficoltà che il sistema economico vive e del caro-energia. Si tratta invece di decisioni che hanno una loro giustificazione e che non prefigurano quella che va sotto il nome di “stretta monetaria”.
Da quando è iniziata (luglio 2022) la fase di rialzo, i tassi ufficiali della Bce sono aumentati di tre punti percentuali. Il tasso di policy più rilevante, cioè il tasso sui depositi che le banche fanno presso la Bce e che guida i tassi del mercato monetario, è passato da -0,50 a 2,50 per cento. Potrebbe sembrare una stretta monetaria severa, ma così non è se si considera il livello dei tassi di interesse reali. Depurando il tasso nominale d’interesse con il tasso d’inflazione corrente (8,5 per cento), si ottiene un tasso reale d’interesse ampiamente negativo: -6 per cento. Anche prendendo come riferimento un tasso d’inflazione atteso nel medio/lungo periodo coerente con l’obiettivo della Bce (2 per cento) si ottiene un tasso d’interesse reale sostanzialmente nullo.
Anche l’annunciata riduzione del portafoglio-titoli appare molto meno significativa di quanto si potrebbe pensare a prima vista. Anzitutto, non è vero che la Bce venderà titoli in suo possesso, come si sente spesso dire. Si limiterà a non rinnovare integralmente i titoli in scadenza. Finora, quando un titolo detenuto dalla Bce giungeva a scadenza, ne ricomprava uno analogo, in modo che la dimensione del suo portafoglio-titoli rimanesse invariata. D’ora in poi, la Bce lascerà che una parte di quelli in scadenza non vengano rinnovati, avviando così una riduzione della dimensione del suo bilancio. Tuttavia, la riduzione sarà puramente simbolica, almeno fino alla metà di quest’anno. Il mancato rinnovo avverrà per 15 miliardi di titoli al mese per un portafoglio-titoli di quasi 5 mila miliardi di euro (sommando i vari programmi attuati negli anni scorsi): come svuotare il mare con un cucchiaio.
Parlare di “stretta monetaria” è quindi improprio. Quello a cui assistiamo è una “normalizzazione” della politica monetaria, che la Bce porta avanti al pari di altre banche centrali, anzi in misura più graduale e prudente di altre, a cominciare dalla Fed statunitense (che ha aumentato i tassi ufficiali del 4,5 per cento da un anno a questa parte e riduce il suo portafoglio-titoli al ritmo di 95 miliardi di dollari al mese). Il susseguirsi di diverse crisi, ultima quella pandemica, ci avevano abituati a una politica monetaria eccezionalmente espansiva, basata su strumenti “non convenzionali” come gli acquisti su larga scala di titoli da parte della banca centrale e livelli negativi dei tassi di interesse. La ripresa dell’inflazione, di cui ci eravamo dimenticati, costringe le banche centrali a uscire dalla fase eccezionale e a riportare la gestione della politica monetaria su di un sentiero più normale.
Perché è giusto aumentare i tassi
Un argomento che viene spesso proposto da chi è critico nei confronti dell’attuale fase di aumento dei tassi di policy è quello relativo alla natura “da costi” dell’inflazione attuale. Si dice: l’aumento dei prezzi è dovuto all’aumento dei costi dell’energia (“shock da offerta”) sul quale la politica monetaria non può fare nulla. Perché allora attivare la leva monetaria, che agisce dal lato della domanda, rendendo più costoso il finanziamento della spesa per investimenti e consumi?
La risposta sta in un modello economico formulato negli anni Ottanta, quando l’inflazione era alta come adesso e anche di più. Quel modello mette al centro del problema la “reputazione” della banca centrale. Se una banca centrale è nota per essere avversa all’inflazione, il tasso di inflazione atteso dagli operatori economici sarà relativamente basso. Se, al contrario, è nota per essere disposta a tollerare livelli elevati di inflazione, gli operatori si attenderanno un’inflazione più alta (a parità di condizioni generali). In altre parole, il tasso d’inflazione atteso dipende dalla “reputazione anti-inflazionistica” della banca centrale: maggiore è questa, più basse saranno le previsioni di inflazione fatte dagli operatori economici (produttori, consumatori, intermediari finanziari). A sua volta, il tasso di inflazione atteso influenza quello effettivo: più alte aspettative di inflazione inducono i lavoratori a chiedere aumenti di stipendio e i produttori ad aumentare i prezzi.
Questo ragionamento ci spiega perché è bene che le banche centrali reagiscano all’aumento dei prezzi, anche se la loro azione è poco efficace di fronte a uno shock da offerta. Se non lo facessero, darebbero l’impressione di essere disposte a lasciare correre l’inflazione, alimentando così le aspettative su di essa ed esponendosi al rischio di generare una spirale prezzi-salari. Una volta che le più elevate aspettative inflazionistiche si fossero radicate nel sistema economico, combattere l’inflazione sarebbe più difficile e costoso. Ecco perché la Bce, come altre banche centrali, insiste (anche nella sua comunicazione) sull’impegno a riportare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento.
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