Tratto da lavoce.info
DI ENRICO DI PASQUALE, Ricercatore della Fondazione Leone Moressa. Esperto di immigrazione e di euro-progettazione.
La politica migratoria italiana non ha finora risposto agli interessi economici e demografici del nostro paese. Si dovrebbe abbandonare l’approccio ideologico e affrontare la questione in modo pragmatico. Ora, alcuni segnali fanno ben sperare.
I lavoratori che mancano
Gli ultimi dati Istat evidenziano una situazione demografica italiana sempre più allarmante, con il minimo storico di nascite (393 mila) e con un saldo naturale (differenza tra nati e morti) negativo per 320 mila unità. La popolazione italiana sta inesorabilmente diminuendo e, al 1° gennaio 2023, è scesa sotto la soglia dei 59 milioni.
Le misure per promuovere la natalità sono più che mai necessarie, ma richiedono inevitabilmente tempi molto lunghi. Nel frattempo, bisognerebbe ammettere di aver bisogno dell’immigrazione e riuscire a gestire il fenomeno in modo da massimizzarne i benefici (demografici, economici e fiscali). Attualmente, la politica migratoria italiana mostra due facce contrapposte: da un lato si cercano disperatamente lavoratori, contingentando però il loro ingresso, mentre dall’altro lato abbiamo decine di migliaia di persone che rischiano la vita per entrare (irregolarmente) e che vorremmo rimpatriare, senza riuscirci.
Dal lato della richiesta di manodopera non comunitaria, il “click day” celebrato lo scorso 27 marzo ha visto oltre 250 mila domande presentate dagli imprenditori italiani, il triplo rispetto agli 82 mila ingressi consentiti dal decreto flussi per il 2023.
Nel decreto è previsto che gli esclusi possano avere un accesso prioritario per il prossimo anno, ma questo stride con le esigenze delle imprese, che hanno bisogno di manodopera hic et nunc. Per questo, le parti sociali hanno richiesto l’emanazione di un nuovo decreto flussi che possa assorbire l’eccedenza di domande già presentate, riducendo quanto più possibile gli ulteriori adempimenti a carico dei datori di lavoro.
Il meccanismo del decreto flussi, istituito dalla legge Turco-Napolitano (1998) e consolidato dalla Bossi-Fini (2002), ha alcuni limiti ben noti:
la domanda di ingresso viene fatta da un datore di lavoro che non ha mai visto né conosciuto il lavoratore. Per questo, molti analisti sostengono che i beneficiari siano già presenti in Italia, rendendo la procedura una “sanatoria” mascherata.
L’unico criterio di selezione è quello cronologico di presentazione delle domande, senza alcuna valutazione nel merito dei profili e delle competenze.
Nonostante le diverse misure di snellimento della procedura adottate negli ultimi due anni, il meccanismo rimane complesso e non sempre in linea con le esigenze delle aziende, soprattutto per le tempistiche di arrivo dei lavoratori (basti pensare agli stagionali).
Leggi anche: Riforma della cittadinanza: provaci ancora, Italia
In generale, poi, si tratta di un impianto che risale a vent’anni fa, un periodo molto diverso rispetto ad oggi dal punto di vista della storia migratoria: basti pensare che nel 2002 gli stranieri residenti erano 1,3 milioni (2,4 per cento della popolazione), mentre oggi sono 5 milioni (8,6 per cento).
Lo stato di emergenza
Sul fronte degli sbarchi, il governo ha di recente dichiarato lo stato di emergenza nazionale. In effetti, dall’inizio del 2023 si sono già registrati oltre 30 mila arrivi: di questo passo, a fine anno si dovrebbe tornare sopra la soglia dei 100 mila, come non accadeva dal 2017.
Questo ha portato a 112 mila le presenze nei centri di accoglienza, facendo riemergere i noti problemi di accettazione sul territorio.
Lo stato di emergenza consentirà di attuare misure straordinarie per decongestionare l’hotspot di Lampedusa e per realizzare nuove strutture, ma è chiaro che si tratta di provvedimenti insufficienti se non si agisce sulla riduzione delle partenze e sulla redistribuzione della responsabilità dell’accoglienza a livello europeo.
Va ricordato che altri paesi europei hanno avuto molte più richieste d’asilo dell’Italia negli ultimi anni, gestendo il fenomeno in modo ordinato. La stessa emergenza Ucraina, peraltro, ha evidenziato che la macchina dell’accoglienza italiana può funzionare: in pochi mesi abbiamo ospitato oltre 170 mila persone, senza disordini né proteste.
Infine, il governo ipotizza poi l’abolizione della protezione speciale, che oggi rappresenta la forma più utilizzata di protezione internazionale (circa il 70 per cento degli esiti positivi). L’intenzione è di ridurre la percentuale di accoglimento delle richieste d’asilo (oggi è del 32,5 per cento, contro il 40,9 per cento della media Ue), come già fatto nel 2018 dai “decreti Salvini”, poi ridimensionati nel 2020.
Senza entrare nel merito “etico” della scelta, bisogna riflettere sull’efficacia. L’inasprimento dei criteri di valutazione, senza una politica efficace sui rimpatri, avrà l’effetto indesiderato di aumentare la presenza sul territorio di persone senza documenti, facili prede di sfruttamento e reti criminali.
Oggi, solo una piccola parte delle persone a cui viene respinta la richiesta d’asilo è poi effettivamente rimpatriata: prima della flessione dovuta al Covid, i rimpatri erano circa 5 mila all’anno. Dal 2013 al 2021, con oltre 350 mila richieste d’asilo respinte, i rimpatri sono stati poco più di 40 mila. Al netto di chi è riuscito a lasciare l’Italia aggirando i controlli di frontiera e di chi ha successivamente ottenuto un permesso (tramite ricorso in appello o grazie alla “sanatoria” del 2020), una buona parte è ancora sul territorio senza documenti, finendo inevitabilmente in una condizione di fragilità e precarietà.
Leggi anche: Rimesse degli immigrati: i conti del 2021
Verso un approccio più pragmatico?
Per uscire dal dibattito ideologico, occorre un approccio pragmatico. In questo senso, due recenti iniziative del governo fanno ben sperare nella presa d’atto che l’immigrazione, se ben gestita e regolamentata, porti un contributo positivo a livello demografico, economico e fiscale.
Il primo episodio riguarda l’avvio, da parte del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, di un confronto con le parti sociali per un’analisi del mercato del lavoro propedeutica alla definizione delle quote massime di ingressi di lavoratori stranieri in Italia per il triennio 2023-2025. Pur senza intervenire sui limiti strutturali del decreto flussi, il processo consentirà una migliore pianificazione degli ingressi. Anche se tali previsioni non potranno mai essere precise e non potranno mai considerare tutte le variabili e gli imprevisti, si tratta comunque di un punto di partenza.
In secondo luogo, il ministero dell’Economia e Finanze ha riconosciuto nel Documento di economia e finanza l’impatto positivo dell’immigrazione (legale), in quanto,“data la struttura demografica degli immigrati che entrano in Italia, l’effetto è significativo sulla popolazione residente in età lavorativa e quindi sull’offerta di lavoro”. Considerato che l’invecchiamento della popolazione porta a una diminuzione della popolazione attiva e a un aumento della spesa previdenziale, assistenziale e sanitaria, i due scenari alternativi (immigrazione netta + 33 per cento o -33 per cento) portano il rapporto debito-Pil a una variazione, rispetto allo scenario di riferimento, di oltre 30 punti percentuali.
L’auspicio è che il pragmatismo continui a guidare l’azione di governo, uscendo dalla logica emergenziale e affrontando le criticità ormai croniche della politica migratoria italiana.
Lavoce è di tutti: sostienila!
Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!
SOSTIENI LAVOCE