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Home Lavoro Regione Emilia Romagna

Angolo del dialetto. Albino Mazzavillani traduce Giorgio Caproni

Redazione di Redazione
3 Luglio 2024
in Regione Emilia Romagna, Rimini
Tempo di lettura : 4 minuti necessari
A A

Ciacarêda (dòp avèla lascèda) dl’ùtum dla Moglja.

(Giorgio Caproni tradotto da Albino ‘d Sintinel)

 

Cvèl che sia stè e prèm, un’è
sicur. Dòp ui’è stê’ un sgónd. Epù un tërz.
Da ùtum, ôn dòp a cl’êtar, tót

ià ciàp la stèsa strê.

Adës un-gnè piò inciôn.

La mi
ca l’è l’ónica

cun cvêicadôn.

A so vëcc
parchè a bindol incôra par fichè

a cvasò, indóv ad curt försi
nénca me a ni sarò piò
a fem cumpagnì?

Mei e sarèb – al so – che a m’aviês
prèma d’andè vi nénca me.
Mo, a so indicis. Astàg icvè.
Um liga l’ërba. E bòs-c.
E fiôm. Nénca se e fiôm l’è a mêlapèna
un armôr e un frès-c
ad-drida al fój.

A la sëra
am met insdē in ste sas, e a stàg d’astè.
A stàg d’astè an so che, mo a stàg d’astè.
E són. La mörta a dirèb, se nénca li
– da un pëz – za l’an fos andeda vi
da sti sid.

A stag d’astè
e a stag in urècia.

(L’acva,
da cvènt migliôn d’èn, l’acva,
la fa e stès armôr
in ti su sës?)

Um pê d’ësar
pērs in te témp.

Fura
de témp, försi.

Mo a stag
cun me stès. An voi
abandunè me stès – scapê’
da me stès cóma,
ad nota, da e tunel sóta tëra
la zuchēra in zērca
d’êtar bur.

E strafójal
dla zitê l’è tròp
fèt. Me a so za zig.
Mo a cvè a vèg. A scor.
Iquè a ciacàr cun tot. Me
icvè a m’arspond e aiò e mi
alter ego. An ne voi
murê’ in te silénzi sörd
d’un armôr sénza un’aparénza
d’ânma. Ad paröl
sénza piò ânma.

 

D’acörd

(l’è e vént di’én cus’instéca

int’la tësta e e spargoja

al foj) d’igna tânt

e cör um selta in göla se a pens

a tot cvel ca iò pērs. A tot

l’alegra crèca

de témp pasê. Al brazêdi. Ai s-cëf.

Al mati risêdi

a la sēra, a l’ustarì

cun al dón. Êlti (risêdi)

da spachê i vidar.

Mo a num arènd. Incôra

an ò pērs me stes.

An so, cun me stes,

incôra da par me.

E da par me

cvând a sarò acsè da par me

da non avè piò gnânca

me stes par cumpagnì,

alôra a ciaparô nénca me la mi

decisiôn.

 

A stacarô

da la muràja e lóm

a l’êlba, e a salutarò

e vùit (ad drida me).

 

Pianì pianì

andrò zo intla vala.

 

Mo nénca alóra, in nom

ad che, e indóv

a truvarô un séns (che tot chietar,

e pè’, in à truvê),

dop avè abandunê ste mi sas?

 

In italiano

Parole  (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglie

Giorgio Caproni

 

Chi sia stato il primo, non
è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.
Poi, uno dopo l’altro, tutti

han preso la stessa via.

Ora non c’è più nessuno.

La mia
casa è la sola
abitata.

Son vecchio.
Che cosa mi trattengo a fare,
quassù, dove tra breve forse
nemmeno ci sarò più io
a farmi compagnia?

Meglio – lo so – è ch’io vada
prima che me ne vada anch’io.
Eppure, non mi risolvo. Resto.
Mi lega l’erba. Il bosco.
Il fiume. Anche se il fiume è appena
un rumore ed un fresco
dietro le foglie.

La sera
siedo su questo sasso, e aspetto.
Aspetto non so che cosa, ma aspetto.
Il sonno. La morte direi, se anch’essa
– da un pezzo – già non se ne fosse andata
da questi luoghi.

Aspetto
e ascolto.

(L’acqua,
da quanti milioni d’anni, l’acqua,
ha questo suo stesso suono
sulle sue pietre?)

Mi sento
perso nel tempo.

Fuori
del tempo, forse.

Ma sono
con me stesso. Non voglio
lasciare me stesso – uscire
da me stesso come,
la notte, dal sotterraneo
il grillotalpa in cerca
d’altro buio.

Il trifoglio
della città è troppo
fitto. Io son già cieco.
Ma qui vedo. Parlo.
Qui dialogo. Io
qui mi rispondo e ho il mio
interlocutore. Non voglio
murarlo nel silenzio sordo
d’un frastuono senz’ombra
d’anima. Di parole
senza più anima.

 

Certo

(è il vento degli anni ch’entra

nella mente e ne turba

le foglie) a volte

il cuore mi balza in gola  se penso

a quant’ho perso. A tutta

la gaia consorteria

di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.

Alle matte risate

la sera, all’osteria

dietro le donne. Alte

da spaccar le vetrate.

 

Ma non m’arrendo. Ancora

non ho perso me stesso.

Non sono, con me stesso,

ancora solo.

E solo

quando sarò così solo

da non aver più nemmeno

me stesso per compagnia,

allora prenderò anch’io la mia

decisione.

 

Staccherò

dal muro la lanterna

all’alba, e dirò addio

al vuoto.

 

A passo a passo

scenderò nel vallone.

 

Ma anche allora, in nome

di che, e dove

troverò un senso (che altri,

pare, non han trovato),

lasciato questo mio sasso?

 

 

 

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