SPIEGA L’ESPERTO: rubrica a cura di Daniela Sammarini*
I “Caplét”, come si chiamano in dialetto, sono una minestra ripiena tradizionalmente gustata in brodo. Il loro aspetto particolare ricorda quello del “galoza”, un copricapo ad ali indossato dalle persone di campagna.
I cappelletti rappresentano il piatto di pasta ripiena tradizionale d’eccellenza, quello sontuoso e ricco che un tempo le azdore (dal dialetto romagnolo, donna del focolare, reggitrice, massaia, colei che presiede il governo della casa, solitamente moglie del capo famiglia nelle campagne romagnole) preparavano in occasione delle festività o per festeggiare particolari ricorrenze e che ancora oggi non può mancare sulle tavole imbandite per celebrare il Natale con i propri cari.
Sveglia all’alba, cucina economica sempre accesa, acqua a ribollire lenta nella pentola di ghisa smaltata, mattarello lungo, tagliere di legno chilometrico, grembiule bianco e manicotti immacolati: il basic kit della “azdora pro”.
La pasta deve essere elastica, e la stesura è un’arte bella da ammirare, un patrimonio culturale.
C’è da rimanere incantati nel vedere come le mani sul mattarello riescano a lavorare una palla di impasto, i movimenti decisi che fanno cantare la sfoglia, fino a renderla , rigorosamente sottile, tanto che accarezzandola con la mano, si possa intravedere la luce che si irradia attraverso la superficie dorata.
Il parto del cappelletto avviene velocemente, tutti assistono, alcuni hanno mani e occhi impegnati a riempire i rettangoli di pasta con la mistura profumata, altri semplicemente si assicurano di controllare la buona riuscita del rituale. Momento ludico per eccellenza e rito di passaggio per i più piccoli, la cui sacralità è aumentata dal suono del brodo che ribolle. Il dado è tratto (non quello da brodo, non sia mai), la magia del Natale sta nelle cose che scaldano la pancia e riempiono di storie nuove la cucina.
Seconda regola fissa del club: il brodo deve essere di solo cappone. La gallina (vecchia) è un’ alternativa accettabile, non la si disdegna, ma nemmeno la si caldeggia, per il giorno di Natale.
Lasciar bollire il brodo per ore e ore il giorno prima del pranzo è la norma, non lasciarlo riposare tutta la notte sarebbe un affronto. Un brodo che assomiglia a una volta celeste, con alcune stelline di grasso saporoso in sospensione, a ricordare che il Natale è un giorno importante, che riecheggia nella galassia di tutti i giorni importanti dell’anno. Tovaglia e servizio delle feste, Sangiovese nuovo nei calici e piadina calda nei cestini di vimini. “L’è bon bon, Maria” (è buono buono) dice Nonno Terzo a Nonna Maria. “Mo l’è propri bon” (ma è proprio super buono).
Conosciamo le origini di questo gustoso piatto.
Secondo diversi studiosi, storicamente gli antenati dei cappelletti erano già diffusi in epoca romana, come testimonierebbero diverse fonti storiche tra le quali ad esempio le commedie di Terenzio, dove viene citato un piatto assai simile e “Cronica” di Fra Salimbene da Adam (XIII sec.), nel quale si descrivono confezionati senza involucro di pasta.
Nel ‘500 anche Cristoforo Messinburgo in “Memoriale per fare un apparecchio generale” (un trattato in cui sono presentate dieci cene, tre desinari e un festino, descritti in tutte le loro fasi e accompagnate da relative ricette e lista di bevande annesse) e Bartolomeo Scappi nelle sue opere di cucina, scrivono entrambi di una pasta che in quanto a forma e preparazione, rimanda a tutti gli effetti a quella dei cappelletti, utilizzando termini quali battuto o compenso per illustrarne il contenuto. Probabilmente parte quindi da qui la storia e l’evoluzione di una ricetta che, come è normale che sia, nel tempo si è evoluta e contaminata per giungere a quella che è oggi.
Lo confermerebbe, infatti, il Censimento napoleonico del 1811, un’indagine condotta nel Regno d’Italia sulle tradizioni, gli usi, i costumi e le abitudini alimentari dei contadini di allora, considerato il primo documento ufficiale in cui si parla esplicitamente dei cappelletti, della loro preparazione e diffusione. A tale proposito, nonostante, alla fine, le informazioni raccolte per far luce sugli stili di vita alimentari della popolazione romagnola fossero poche, è interessante quello che scrisse, nel suo rapporto finale, l’allora prefetto di Forlì Leopoldo Staurenghi: “A Natale presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta che chiamasi cappelletti. L’avidità di tale minestra è così generale che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500. Questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni”.
Qualche anno dopo, nel 1818, M. Placucci in “Usi e pregiudizi de’ contadini di Romagna”, oltre a confermare l’usanza tra i contadini di preparare i cappelletti in occasione delle festività natalizie, fornisce ulteriori, seppur essenziali, indicazioni circa la loro preparazione: “in questo giorno si fanno i cappelletti, minestra composta di ricotta, formaggio, uova e aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia di lasagna”.
Come afferma Placucci, e secondo le informazioni raccolte da trattati e ricerche più recenti, la tradizione vuole infatti che a quei tempi, tutte le famiglie, anche quelle più povere preparassero i cappelletti almeno una volta l’anno, ritrovandosi insieme per confezionarli solitamente durante la notte della vigilia e cuocerli poi l’indomani nel brodo caldo rigorosamente di cappone.
Era un’operazione che coinvolgeva tutti, soprattutto i bambini che potevano così imparare trucchi e segreti di famiglia.
Insieme, si impastavano farina e uova per la sfoglia che veniva tirata sottilmente con il mattarello e poi tagliata in quadrati o cerchi al centro dei quali veniva posto il cumpens (dal dialetto romagnolo: compenso), un ripieno solitamente composto da uova, noce moscata e formaggi diversi grattugiati e freschi tra i quali in particolare il Raviggiolo, formaggio fresco a pasta bianca di latte vaccino o ovicaprino, tipico dell’appennino tosco romagnolo.
Diversamente, in alcune famiglie vi era l’abitudine di aggiungere al ripieno carni miste, come il macinato di maiale, rigaglie di pollo e petto di cappone. Si procedeva poi chiudendo a triangolo o mezzaluna i ritagli di pasta ricavati sovrapponendo le due estremità della base e agendo sul vertice per ottenere i cappelletti, la cui forma ricorda tanto quella del Gozala, un buffo copricapo diffuso tra i contadini e la gente di campagna, dalla tesa corta e con un grande e gonfio cupolone.
Infine, ricoperto con un telo l’asse da pane sul quale si disponevano i cappelletti in fila, uno accanto all’altro, si usciva per recarsi alla santa messa.
La mattina del giorno seguente, in base al numero dei commensali, si contavano i cappelletti e si facevano cuocere nel brodo caldo preparato con carne di cappone o gallina possibilmente “tagliata” con quella di manzo e castrato e con aggiunta di carote, sedano e qualche pomodorino preso dalla dispensa. Alcuni simpatici aneddoti raccontano inoltre che per burlarsi dei bambini o del commensale che lo trovava, tra i cappelletti ne veniva nascosto uno un poco più grande fatto di sola pasta e denominato appunto il cappelletto del goloso.
La preparazione dei cappelletti rappresentava dunque un momento prezioso di convivialità capace di unire la famiglia e rafforzare sapere e tradizione antica. Ognuno seguiva la sua speciale ricetta, dettata spesso anche da quello che la dispensa e le provviste offrivano; ricetta che, ancora oggi, come capita spesso per i piatti regionali largamente diffusi, è al centro di una forte contesa tra tradizioni locali diverse, che ne reclamano la paternità e che, soprattutto su l’annosa questione del ripieno, hanno generato due scuole di pensiero diverso:
i sostenitori della prima (localizzati prevalentemente nelle zone di Ravenna, Alfonsine e Bagnacavallo), appellandosi alle indicazioni riportate all’interno del Censimento napoleonico del 1811 e ad altri documenti ufficiali, vogliono il ripieno a base unicamente di formaggi (formaggi a pasta bianca e morbida, Raviggiolo e parmigiano, per alcuni addirittura solo quest’ultimo).
I sostenitori della seconda, invece, lo preparano con aggiunta di carne (lonza, cappone, o di altra tipologia) rifacendosi a loro volta alla ricetta dei Cappelletti all’uso di Romagna pubblicata dall’Artusi in “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” in cui si include nel ripieno il petto di cappone, riservando il solo formaggio ai Cappelletti di Magro, una variante preparata generalmente per la Vigilia.
E le divergenze continuano anche sul tipo di carne utilizzata. In generale comunque, e semplificando, mano a mano che ci spostiamo dalla zone ravennate verso le Marche, il ripieno dei cappelletti subisce variazioni che includono in maniera sempre più significativa la carne tra gli ingredienti principali.
Così, a Ravenna e provincia troviamo quelli di formaggio; nelle zone di Forlì vanno bene entrambi; Rimini, San Marino e Pesaro solo carne, quelli marchigiani non a caso ne includono sempre tipi diversi (vitello, tacchino e lombo di maiale) come anche quelli ferraresi. Ad ogni modo, questa spaccatura, secondo autorevoli studiosi contemporanei, si deve principalmente alle diverse influenze presenti storicamente in Emilia-Romagna:
– Il ripieno di formaggio sarebbe da ricondurre alla dominazione dei Bizantini sul territorio romagnolo, dediti all’agricoltura, alla pesca e all’allevamento del bestiame finalizzata all’ottenimento del latte
– l’impiego della carne sarebbe legato alla dominazione dei Longobardi sul territorio emiliano, prettamente allevatori, e quindi più legata al tortellino (tutt’altra cosa, mi raccomando non confondiamoli!) che non al cappelletto.
Dunque due ripieni diversi legati però da un’unica tradizione che riesce finalmente a mettere tutti d’accordo almeno su una cosa: i cappelletti rappresentano una delle eccellenze della gastronomia nazionale e autoctona, un piatto goloso che è d’obbligo cucinare per le ricorrenze.
Sarnicola Gianluca Chef dell’Hotel Roma di Riccione e docente allo Ial di Riccione ci ha consegnato la ricetta della tradizione romagnola arrivata a noi grazie a Pellegrino Artusi, l’inventore della cucina italiana
Pellegrino Artusi tutti lo nominano, in pochi conoscono davvero la sua storia e il libro che lo ha reso immortale. “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, manuale datato 1891 e tradotto anche in inglese, olandese, portoghese, spagnolo, tedesco e francese: ecco l’opera che ha reso celebre in tutto il mondo Pellegrino Artusi da Forlimpopoli, scrittore, gastronomo e critico letterario, che forse pensava di passare alla storia per i suoi studi su Foscolo e invece verrà ricordato per quello che è stato definito “il Vangelo della cucina italiana”.
Un manuale unico. Il suo libro, noto anche semplicemente come “L’Artusi”, costituì una sorta di spartiacque nella cultura gastronomica dell’epoca, valorizzando la tradizione culinaria nazionale anche con la giusta dose di ironia. Artusi, che ne pagò di tasca propria la pubblicazione, non avendo trovato nessun editore disposto a finanziarlo, raccolse ricette da tutta Italia descrivendole talvolta con piccoli commenti personali e prestando la giusta attenzione a quelle preparate in modo casalingo. Ecco perché a lui in tanti riconoscono il merito di aver dato dignità a un enorme mosaico di tradizioni regionali, tra fritture, ripieni, umidi, minestre, salse, arrosti, lessi, gelati e conserve. La sua opera, inoltre, conta oltre un milione di copie vendute e cento edizioni.
Ricetta n. 7: Cappelletti all’uso di Romagna
«Sono così chiamati per la loro forma a cappello. Ecco il modo più semplice di farli onde riescano meno gravi allo stomaco.
Ricotta, oppure metà ricotta e metà cacio raviggiolo, grammi 180.
Mezzo petto di cappone cotto nel burro, condito con sale e pepe, e tritato fine fine colla lunetta.
Parmigiano grattato, grammi 30.
Uova, uno intero e un rosso.
Odore di noce moscata, poche spezie, scorza di limone a chi piace.
Un pizzico di sale.
Assaggiate il composto per poterlo al caso correggere, perché gl’ingredienti non corrispondono sempre a un modo.
Mancando il petto di cappone, supplite con grammi 100 di magro di maiale nella lombata, cotto e condizionato nella stessa maniera. Se la ricotta o il raviggiolo fossero troppo morbidi, lasciate addietro la chiara d’uovo oppure aggiungete un altro rosso se il composto riuscisse troppo sodo. Per chiuderlo fate una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova servendovi anche di qualche chiara rimasta, e tagliatela con un disco rotondo della grandezza come quello segnato.
Disco pei cappelletti (diametro 67 mm) Ponete il composto in mezzo ai dischi e piegateli in due formando così una mezza luna; poi prendete le due estremità della medesima, riunitele insieme ed avrete il cappelletto compito.
Se la sfoglia vi si risecca fra mano, bagnate, con un dito intinto nell’acqua, gli orli dei dischi.
Questa minestra per rendersi più grata al gusto richiede il brodo di cappone; di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini.
Cuocete dunque i cappelletti nel suo brodo come si usa in Romagna, ove trovereste nel citato giorno degli eroi che si vantano di averne mangiati cento; ma c’è il caso però di crepare, come avvenne ad un mio conoscente. A un mangiatore discreto bastano due dozzine.
A proposito di questa minestra vi narrerò un fatterello, se vogliamo di poca importanza, ma che può dare argomento a riflettere.
Avete dunque a sapere che di lambiccarsi il cervello su’ libri i signori di Romagna non ne vogliono saper buccicata, forse perché fino dall’infanzia i figli si avvezzano a vedere i genitori a tutt’altro intenti che a sfogliar libri e fors’anche perché, essendo paese ove si può far vita gaudente con poco, non si crede necessaria tanta istruzione; quindi il novanta per cento, a dir poco, dei giovanetti, quando hanno fatto le ginnasiali, si buttano sull’imbraca, e avete un bel tirare per la cavezza ché non si muovono. Fino a questo punto arrivarono col figlio Carlino, marito e moglie, in un villaggio della bassa Romagna; ma il padre che la pretendeva a progressista, benché potesse lasciare il figliuolo a sufficienza provvisto avrebbe pur desiderato di farne un avvocato e, chi sa, fors’anche un deputato, perché da quello a questo è breve il passo.
Dopo molti discorsi, consigli e contrasti in famiglia fu deciso il gran distacco per mandar Carlino a proseguire gli studi in una grande città, e siccome Ferrara era la più vicina per questo fu preferita. Il padre ve lo condusse, ma col cuore gonfio di duolo avendolo dovuto strappare dal seno della tenera mamma che lo bagnava di pianto. Non era anco scorsa intera la settimana quando i genitori si erano messi a tavola sopra una minestra di cappelletti, e dopo un lungo silenzio e qualche sospiro la buona madre proruppe: – Oh se ci fosse stato il nostro Carlino cui i cappelletti piacevano tanto! – Erano appena proferite queste parole che si sente picchiare all’uscio di strada, e dopo un momento, ecco Carlino slanciarsi tutto festevole in mezzo alla sala. – Oh! cavallo di ritorno, esclama il babbo, cos’è stato? – È stato, risponde Carlino, che il marcire sui libri non è affare per me e che mi farò tagliare a pezzi piuttosto che ritornare in quella galera. –
La buona mamma gongolante di gioia corse ad abbracciare il figliuolo e rivolta al marito: – Lascialo fare, disse, meglio un asino vivo che un dottore morto; avrà abbastanza di che occuparsi co’ suoi interessi. – Infatti, d’allora in poi gl’interessi di Carlino furono un fucile e un cane da caccia, un focoso cavallo attaccato a un bel baroccino e continui assalti alle giovani contadine»
*Le fonti dei testi presi dal web:
https://tuorlomagazine.it/en/tradizioni-di-natale-cappelletto-romagnolo-tuorlo-magazine/
https://www.lacucinaitaliana.it/storie/chef-cuochi/chi-e-pellegrino-artusi/