Tratto da lavoce.info
Di Francesca Gastaldi, professore Associato di Scienza delle Finanze presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza
e Alberto Zanardi, professore ordinario di Scienza delle finanze nell’Università di Bologna
Al G7 canadese si è raggiunto un accordo che esclude le multinazionali con capogruppo negli Usa dall’applicazione della tassa minima globale. Suscita molti interrogativi e non cancella la possibilità di nuovi contenziosi con l’amministrazione Trump.
L’accordo con gli Usa
Il G7, sotto la presidenza canadese, ha annunciato il 28 giugno un accordo sulla tassazione globale delle multinazionali che rischia di indebolire profondamente le prospettive del coordinamento fiscale internazionale. Il punto fondamentale dell’intesa consiste nell’escludere le multinazionali con capogruppo negli Stati dall’applicazione delle regole della Global Minimum Tax (Gmt), prevista dalla riforma concordata nell’ambito dell’Oecd-G20 nel 2021 e recepita da oltre 140 paesi.
L’accordo del G7 arriva alla fine di un’offensiva dell’amministrazione Trump contro la Global Minimum Tax avviata già nel gennaio scorso, subito dopo il suo insediamento, attraverso un Memorandum che revocava gli impegni assunti precedentemente da Joe Biden (ma di fatto congelati dal Congresso). L’accusa era che con la Gmt sarebbero stati introdotti prelievi “extraterritoriali”, con effetti negativi sul gettito e lesivi della sovranità fiscale degli Stati Uniti, o comunque discriminatori nei confronti delle imprese americane. Dalle parole si è poi passati ai fatti, almeno all’apparenza, con l’introduzione, nella nuova legge di bilancio Usa (la “One Big Beautiful Bill Act”) di una sovraimposta crescente nel tempo (la cosiddetta Section 899) sui redditi percepiti negli Stati Uniti da soggetti stranieri (persone fisiche, società, enti pubblici) in qualche modo collegati con paesi che applichino imposte ritenute discriminatorie nei confronti di soggetti americani – in particolare, nel mirino ci sono la Under-Taxed Payment Rule (Utpr) e le Digital Services Taxes introdotte da vari paesi europei, tra cui l’Italia. Un’imposta di ritorsione (revenge tax) dunque, che tuttavia, in puro stile Trump, è stata impiegata come strumento negoziale e poi prontamente ritirata durante la discussione in Senato, in concomitanza con il raggiungimento dell’intesa nel G7.
Per giustificare l’esclusione delle multinazionali statunitensi dall’applicazione della Gmt si è usato l’argomento secondo cui tali imprese, per i profitti realizzati sia a livello nazionale sia all’estero, sarebbero già sottoposte a una forma di minimum tax attraverso le misure nazionali di contrasto all’erosione della base imponibile e al profit shifting introdotte dalla riforma fiscale di Trump del 2017 (Tax Cuts and Jobs Act). Si fa riferimento in particolare alla Gilti (Global Intangible Low-Taxed Income) e alla Beat (Base Erosion and Anti-Abuse Tax), che condividono gli stessi obiettivi della Gmt, ma che ovviamente, date le diverse modalità di prelievo, non sarebbero, secondo l’amministrazione statunitense, in contrasto con gli interessi nazionali.
I rischi del principio side by side
L’accordo applica un approccio side-by-side, per cui le regole della tassa minima vanno considerate in parallelo con quelle del sistema fiscale nazionale – in questo caso, quello statunitense. Il risultato è che per le multinazionali americane si accantona l’approccio alla base della Gmt. Secondo il quale le multinazionali dovrebbero essere assoggettate a un regime di tassazione uniforme, con un’aliquota minima effettiva del 15 per cento, distintamente in ciascun paese in cui operano attraverso le proprie controllate, e anche indipendentemente dalla stessa volontà di questi paesi (che potrebbe essere incentivati a detassare per ragioni di concorrenza fiscale). La realizzazione più compiuta e diretta di questo approccio globale è probabilmente rappresentata dalla Under-Taxed Payment Rule, secondo cui un paese in cui una multinazionale opera attraverso una propria controllata può andare a tassare all’aliquota minima effettiva del 15 per cento anche i profitti prodotti in altri paesi – compreso quello in cui ha sede la capogruppo, ossia nella maggior parte dei casi gli Stati Uniti – qualora tali profitti siano tassati, specificamente in quei paesi, con un prelievo effettivo inferiore a quello minimo. Al contrario, nel regime di tassazione anti-elusivo statunitense l’imposta minima è applicata al totale dei profitti nazionali ed esteri, guardando pertanto alla struttura complessiva della multinazionale americana e non alla sua attività paese per paese.
D’altra parte, le multinazionali statunitensi (insieme a quelle cinesi) rappresentano una quota importante a livello mondiale e la loro esenzione della imposta minima globale (almeno inizialmente) lascerà di nuovo spazio ai paradisi fiscali incentivando lo spostamento della residenza delle multinazionali negli Stati Uniti, garantendogli una maggiore competitività fiscale rispetto agli altri paesi.
Tanti interrogativi aperti
L’intesa, per la quale restano da definire i dettagli dei suoi aspetti operativi, apre quindi una serie di questioni cruciali.
Come sarà accolto l’accordo a livello globale? L’intesa è stata raggiunta in sede G7, ma la Gmt è stata negoziata e approvata nell’ambito del G20/Inclusive Framework, che appunto riunisce circa 140 paesi. Come reagiranno gli altri membri dell’Inclusive Framework? Peraltro, l’Unione europea, che ha recepito quasi integralmente la Gmt con una propria direttiva (2022/2523/U), dovrà probabilmente modificare l’ordinamento comunitario in materia.
Altri paesi potrebbero rivendicare un trattamento analogo a quello riservato agli Stati Uniti nell’accordo con il G7? Più in generale, quale sarà il futuro del coordinamento fiscale internazionale? Sulla base dell’approccio side-by-side, altri stati potrebbero introdurre nuove normative nazionali, innescando meccanismi di concorrenza fiscale e vanificando i risultati – pur se limitati – ottenuti con l’accordo sulla Gmt, in termini di affermazione dei principi di coordinamento della tassazione internazionale.
La tregua garantita dall’accordo del G7 è destinata a reggere nel tempo? Grazie ai risultati rapidamente raggiunti, l’amministrazione statunitense potrebbe rilanciare l’offensiva aprendo nuovi “fronti di trattativa”? Anche perché l’accordo del G7, nell’ambito del Pillar 2, non sembra prevedere indicazioni specifiche di esenzione riguardo all’applicazione dell’imposta minima del 15 per cento (Qualified Domestic Top-up Taxes) alle controllate estere delle multinazionali statunitensi. Ne consegue, quindi, che queste resterebbero soggette alla Qdmtt per i profitti delle proprie sussidiarie situate in giurisdizioni che applicano l’imposta.
Allo stesso modo, l’accordo del G7 lascia irrisolta la questione delle Digital Services Taxes, unilateralmente adottate da molti paesi, Italia compresa. Di queste imposte si è occupato un secondo Memorandum dell’amministrazione Trump, nel febbraio scorso, e sono da tempo fonte di preoccupazione negli Stati Uniti per il loro presunto carattere discriminatorio nei confronti delle Big Tech. Sotto la pressione delle iniziative sui dazi e della revenge tax, prima l’India ha cancellato la sua imposta digitale, poi il Canada ha ritirato la propria subito dopo averla introdotta. Nel comunicato del G7 si fa solo riferimento alla possibilità di riaprire un tavolo di confronto sulla questione della tassazione dell’economia digitale. E questo possibile nuovo terreno di scontro coinvolgerebbe certamente molto di più anche l’Italia.
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