di Arianna Lanci
Credo nella cultura che porta ad aprire meglio gli occhi, le orecchie, e il cuore: credo nell’ascolto.
Credo che l’ascolto sia la cosa più difficile e credo che sia l’ascolto il punto di arrivo della cultura.
Credo che la cultura non germogli se non quando proviamo a gettare le basi di un mondo diverso, migliore, che rompa con il mondo attuale e con le sue stesse condizioni di esistenza. Credo nei piccoli gesti, e credo che la cultura si faccia soprattutto- con difficoltà- dentro la scuola, così come negli spazi più insoliti di una città o camminando insieme, un gruppo di persone, senza dimenticarsi di rivolgere lo sguardo anche verso l’alto. Credo nella necessità di partire dal basso, ma con il cielo dentro gli occhi: dagli alberi, dalle zolle di terra, dall’erba, e dalla vita di ogni creatura più fragile, umana e non umana. Cultura è ogni ascolto che dia voce a chi voce non ha, o meglio, a chi avrebbe voce, ma la sua voce semplicemente non viene sentita. Credo fermamente che certi temi non possano più considerarsi ristretto appannaggio dei cosiddetti ambientalisti.
Credo che la cultura ci metta soprattutto in relazione, che la cultura sia relazione, come del resto è l’ordine naturale delle cose. Credo in sostanza che la cultura dovrebbe non tanto o non solo farci guardare lontano, ma farci vedere vicino, e vicinissimo, nella percezione della comune sostanza che ci unisce agli altri esseri viventi, umani e non umani.E se posso insinuarmi nel dialogo che ha preso vita in città a proposito della cultura, vorrei citare Donna Haraway (la famosa filosofa della scienza, femminista ed ecologista) e la sua idea di valore, quel “prosperare naturalculturale di umani e non umani in generazioni di relazioni terrene di cura e parentela”. Il totale capovolgimento di un paradigma, quello rigidamente antropocentrico, che ci ha condotti nel bel mezzo della crisi ecologica e del cambiamento climatico e che tuttora sembra diventare sempre più imperante e delirante. La cultura di una città si misura con l’accoglienza che la città è in grado di offrire ad umani e non umani: un’idea di ospitalità che travalica i confini di specie, che si apre a una visione ecosistema- non egoica- della città. Accolgo e faccio mia l’espressione di Vittorio d’Augusta a proposito del vivere “sanamente” lo spazio della città per allargare però il punto di vista: senza portare attenzione sugli altri concittadini, quelli non umani, lo spazio della città non sarà mai davvero sano e sanamente abitabile. Credo nella cultura che porta attenzione alla natura in quanto vita perché la vita della natura è interconnessione tra tutti i viventi, anche nel cuore della città, della mia città, dove molto spesso gli slogan prendono il posto dei contenuti. Non c’è cultura senza ascolto della natura, non c’è cultura senza una messa in discussione radicale di quell’ “eccezionalismo umano” (per tornare a Donna Harawy) che ci ha resi abitatori arroganti di un pianeta sofferente, sfruttatori di risorse anziché custodi di bellezza. E questo vale tanto nella più ampia prospettiva mondiale, quanto in quella più minuscola, di un Comune piuttosto che di un quartiere o di un singolo edificio. Il piccolo è quello che mi riguarda e quello che mi interessa. L’arte sonora è il mio canale, un coro il mio unico strumento di azione politica. Un coro di voci umane, l’Ensemble Vocale Canòpea, che nel proprio nome ha la chioma degli alberi; un progetto che diventa impegno concreto, una sensibilità che si fa idea e che non si vergogna di combattere per i diritti di un fiore selvatico cresciuto dentro un cordolo e tranciato poco prima della Pasqua per far posto a un’idea di ordine e pulizia che coincide con la morte. I miei maestri sono i rondoni e il concetto da cui parto è quello di monumento VIVO, potentissimo da un punto di vista culturale perché capace di aprire varchi dentro mondi prima sconosciuti, ma anche di avvicinare al già visto con un’attenzione inedita. La cultura di oggi chiede una messa in discussione dell’antropocentrismo rigido e miope che governa il mondo e lo distrugge. La nostra associazione corale (un’Associazione di Promozione Sociale- in sinergia con i valori e le battaglie culturali di Monumenti Vivi Rimini– Associazione che tutela i nidi dei migratori negli edifici) si fa portavoce di un preciso messaggio: il canto come invito alla relazione, come ascolto- per ricongiungere la terra e il cielo. Per tutelare l’ecosistema della città. Per superare la dicotomia tra natura e cultura. Per l’instaurazione di un nuovo collettivo inclusivo e plurale.
Rimini vuole ascoltarci?
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PERCHE’ UN FESTIVAL DEDICATO AI RONDONI A RIMINI
Sempre infinitamente grata ai miei amatissimi rondoni, miei maestri nel sentiero di scoperta che tiene insieme l’infinito del cielo, il filo d’erba nel cemento, la più nascosta cavità di un edificio e l’anima sconosciuta dei piccioni. Da qui l’idea di un Festival Musicale tra Terra e Cielo, in dedica alle voci dei rondoni, che per quasi tutti sono rondini e che invece nella realtà sono uccelli che vivono in volo, tutt’uno col cielo, ma anche con noi esseri umani, perché per riprodursi da secoli scelgono le nostre città, i nostri edifici storici, le nostre case, i nostri supermercati, persino le banche, ma anche le scuole. Scelgono anche Rimini, ma Rimini cosa fa per loro? Loro che sono in declino inarrestabile anche e soprattutto per via di scelte architettoniche che li escludono. Nel giro di qualche decennio non avremo più rondoni se non pensiamo ora a loro, a come aiutarli. L’ edilizia moderna green li esclude: guardate i nuovi edifici, perfettamente lisci, perfettamente inospitali. Dei cubi senza la più piccola cavità: l’isolamento termico è importante, ma anche la biodiversità è vitale ed è bellezza, poesia gratuita sempre disponibile. Ve la immaginate piazza Cavour senza rondoni e senza piccioni? Una città più colta è una città più ospitale verso i rondoni, verso gli abitanti non umani? Io sono convinta di sì.Potrei ricordare il fatto che i rondoni si nutrono di insetti, che sono utili a noi esseri umani, ma preferisco portare attenzione sulle loro voci, perché le voci dei rondoni sono musica. Questo l’incipit. L’esperienza dell’ascolto diventa così un invito alla relazione, l’apertura di nuovi scorci, nuovi punti di vista, per un collettivo inclusivo, per un’alleanza multispecie che sovverta l’ordine attuale del pensiero. Perché non c’è cultura senza rompere uno schema e proporne uno alternativo. All’indomani della morte di Fulco Pratesi come si fa a non ricordare il valore della biodiversità urbana: l’immagine schematica da lui offerta nel libro CLANDESTINI IN CITTA’, pubblicato nel 1975, basterebbe da sola a tradurre una precisa idea di cultura come relazione, nella natura e con la natura. E di questa relazione la cultura riminese, la città e le sue Istituzioni, io penso debbano farsi portavoce.